Elsa Dorlin, un’autodifesa costituente
Scaffale «Difendersi. Una filosofia della violenza», per Fandango, è il primo testo dell’autrice tradotto in italiano. Il femminismo incrocia una prospettiva postcoloniale per smascherare l’intreccio dei dispositivi di dominio. Un’analisi delle diverse «pratiche di soggettivazione» degli oppressi nate dalla reazione a brutalità e soprusi. Tra gli esempi, le rivolte di schiavi e indigeni, le azioni delle suffragette, le tecniche di lotta degli ebrei del ghetto di Varsavia, le Pantere Nere e le pattuglie Queer dopo Stonewall. «Cosa fa la violenza, giorno dopo giorno, alle nostre vite, ai nostri corpi, ai nostri muscoli? E a questi ultimi, a loro volta, cosa è consentito di fare attraverso di essa?»
Scaffale «Difendersi. Una filosofia della violenza», per Fandango, è il primo testo dell’autrice tradotto in italiano. Il femminismo incrocia una prospettiva postcoloniale per smascherare l’intreccio dei dispositivi di dominio. Un’analisi delle diverse «pratiche di soggettivazione» degli oppressi nate dalla reazione a brutalità e soprusi. Tra gli esempi, le rivolte di schiavi e indigeni, le azioni delle suffragette, le tecniche di lotta degli ebrei del ghetto di Varsavia, le Pantere Nere e le pattuglie Queer dopo Stonewall. «Cosa fa la violenza, giorno dopo giorno, alle nostre vite, ai nostri corpi, ai nostri muscoli? E a questi ultimi, a loro volta, cosa è consentito di fare attraverso di essa?»
«Partire dal muscolo anziché dalla legge. Questo sposterebbe il modo in cui la violenza è stata problematizzata dal pensiero politico. Questo libro si concentra su dei momenti storici di passaggio alla violenza difensiva (alla pratica dell’autodifesa), su dei momenti che non possono essere resi intelligibili sottomettendoli a un’analisi politica e morale incentrata su questioni di ‘legittimità’. In ogni suo momento, il passaggio alla violenza difensiva ha avuto come unica posta in gioco la vita: non essere abbattut* sin dall’inizio. Questa forma di violenza fisica è qui pensata come necessità vitale, in quanto prassi di resistenza».
È ATTRAVERSO queste potenti parole, più che pregnanti se si pensa allo stato di emergenza sanitaria ed economica al centro della nostra attuale congiuntura storica, che Elsa Dorlin enuncia il programma d’inchiesta del suo ultimo lavoro, un testo assai suggestivo già dal titolo stesso: Difendersi. Una filosofia della violenza. Uscito nel 2017 in Francia, e appena pubblicato da Fandango (pp. 304, euro 20), si tratta del primo testo dell’autrice tradotto (finalmente) in italiano. L’opera di Dorlin, femminista, docente di Filosofia all’Università di Parigi VIII, già nota per almeno due opere altrettanto importanti – Sexe, genre et sexualités: introduction à la théorie féministe (2008) e soprattutto il formidabile La matrice de la race : généalogie sexuelle et coloniale de la nation française (2006) – offre una delle riflessioni più stimolanti su quello che può essere qui considerato l’antirazzismo come pratica politica, ma soprattutto teorico-epistemologica.
Incentrati sullo smascheramento del potente intreccio storico di sessismo, classismo e razzismo nella costituzione dei dispositivi moderni e coloniali di dominio, gli scritti di Dorlin si dispiegano a partire da una prospettiva femminista assai originale, si potrebbe dire decoloniale o postcoloniale, che concede poco alle retoriche del momento e alle loro parole d’ordine, privilegiando invece nelle sue acute analisi storiche una raffinata messa al lavoro teorico-critica di quello «sguardo altro» – di quella «conoscenza di parte» – proveniente dall’archivio globale delle lotte femministe e dell’antirazzismo nero.
IL TESTO DI DORLIN si snoda a partire da una doppia linea d’inchiesta, le cui rispettive pieghe vengono considerate come una disaggregazione gerarchica, interna e costitutiva, dello stesso esercizio liberal-borghese, moderno e occidentale, di potere: la costruzione/legittimazione politico-giuridica, da una parte di «soggetti degni di difendersi e di essere difesi» e, dall’altra, di «corpi disarmati, violentabili, e quindi costretti ad adottare pratiche di autodifesa», sia per conservare la propria vita sia per riaffermare la loro stessa esistenza sociale. Si tratta di un dispositivo di gerarchizzazione della cittadinanza non tanto prodotto quanto affinato o riassemblato dalla progressiva razzializzazione della razionalità capitalistica di governo.
Traendo spunto da un vecchio saggio di Judith Butler – Tra razzismo e paranoia bianca (2011) – Dorlin ricorda, attraverso una brillante analisi dell’omicidio di Rodney King nel 1992, che è proprio l’episteme razzista dei moderni dispositivi di potere, ovvero la costruzione di alcuni corpi come di per sé minacciosi, violenti, pericolosi e illegali, a consentire una (ideologica) inversione dei ruoli, in cui l’aggressore (lo Stato, la polizia, la giustizia proprietaria bianca) diviene la vittima e la preda (non-bianch*, pover*) il presunto predatore. È chiaro che all’interno di quest’ottica, «I can’t breathe», il sintomatico grido di disperazione pronunciato da Eric Garner e George Floyd nell’imminenza dei loro assassinii, viene ad assumere una nuova e ancora più spettrale valenza.
LA PROBLEMATICA di Dorlin non si risolve però nel mero (e agambeniano) riconoscimento di un perverso rapporto storico-dialettico tra «potere sovrano» e «nuda vita» come cifra del moderno. Anzi, Difendersi si propone più che altro come un’affascinante genealogia storica della costituzione di diversi «movimenti di autodifesa», ovvero, per dirlo con le stesse parole di Dorlin, «del passaggio alla violenza fisica difensiva di determinati gruppi come pratica di soggettivazione».
Così, il testo tesse la sua trama principale portando alla luce una inedita e suggestiva costellazione politica costituita da alcuni dei più noti «movimenti di autodifesa della storia: dalle numerose rivolte di schiavi e indigeni avvenute nel mondo coloniale moderno, al ricorso al Ju-Jitsu e all’istruzione alle arti marziali come pratica di autodifesa femminista promosse dalle suffragette inglesi (in particolare da Edith Garrud, fondatrice del Suffragettes Self-Defense Group nel 1909); dall’appello all’insorgenza armata dei neri contro la pratica bianca del linciaggio lanciato, tra altr*, dalla femminista nera Ida B. Wells, alle tecniche di combattimento elaborate dagli ebrei nel ghetto di Varsavia contro i pogrom e altre forme di violenza razzista; dalla costituzione del Partito delle Pantere nere per l’autodifesa alla formazione delle pattuglie Queer di autodifesa negli anni immediatamente successivi alle rivolte di Stonewall nel 1969.
QUESTE CONTRO-CONDOTTE subalterne, afferma Dorlin, «formano quelle che io chiamo l’autodifesa propriamente detta, in contrasto con il concetto giuridico di legittima difesa». La principale enunciazione politica del testo sta proprio in questa contrapposizione tra «legittima difesa» (delle classi dominanti) e «autodifesa» (dei gruppi oppressi), costruita dall’autrice leggendo alcune delle espressioni principali della teoria borghese del contratto sociale – come Hobbes, Locke e Hegel – a contropelo di Fanon e di altri autori della tradizione radicale nera. Mentre la «legittima difesa» presuppone un «soggetto di diritto» già legalmente costituito (in virtù del possesso proprietario, così come dell’appartenenza di razza e di genere), il passaggio alle pratiche di autodifesa è stato l’unica garanzia di soggettività politica dei corpi subalterni, ovvero il principale strumento di un reale empowerment per indigeni, schiavi, colonizzati, donne, omosessuali, ecc.
Si tratta di un’affermazione che resta chiaramente valida anche nel caso dell’esperienza storica di migranti e rifugiati. Detto altrimenti, le forme storiche dell’autodifesa, ridefinite da Dorlin come «etiche marziali di sé» – in una chiara rivisitazione (femminista e postcoloniale?) del concetto di «tecnologia del sé» come pratica di soggettivazione abbozzato da Foucault – hanno storicamente rappresentato, per molte delle diverse forme di esistenza subalterna, non solo una reale necessità vitale, data la loro estrema vicinanza a una condizione di morte (fisica o sociale) prematura, ma soprattutto un passaggio necessario alla loro visualizzazione-costituzione come «soggetti di diritto».
E TUTTAVIA, per evitare equivoci, bisogna fare un’importante precisazione: l’autodifesa è (definibile come) tale solo quando opera nel senso di una trasformazione rivoluzionaria delle diverse logiche di dominio su cui si fonda il sistema.
Il progetto di Dorlin, dunque, non deve essere frainteso. Ponendo come paradigma l’approccio femminista alla questione del dominio, Difendersi non si limita a proporre uno sguardo feticistico, e a buon mercato, delle più note forme storiche di «violenza difensiva». Il suo testo ci offre un’importante indicazione di metodo per la costruzione di un contropotere: concentrare l’attenzione non tanto sui soggetti politici già costituiti quanto piuttosto sulla politicizzazione della soggettività, «nel quotidiano, nell’intimità dei sentimenti di rabbia racchiusi in noi, nella solitudine delle esperienze fatte della violenza, rispetto alle quali pratichiamo continuamente un’autodifesa non riconosciuta come tale».
IN SINTESI, Difendersi pone coraggiosamente la questione storica del ricorso alla «violenza difensiva» – alla difesa di sé – come necessario passaggio all’atto (politico) per una molteplicità (oggi sempre più estesa) di soggetti, gruppi e classi oppresse. Si tratta di una questione che torna particolarmente urgente di fronte all’ulteriore ripiegamento in senso dispotico del comando capitalistico globale. Tornare sull’omicidio razzista di George Floyd quanto sulle polemiche nate attorno alla radicalità delle grandi insorgenze antirazziste globali seguite alla sua esecuzione può aggiungere nuova luce all’interrogativo fondamentale a cui Dorlin cerca di rispondere con il suo lavoro: «Cosa fa la violenza, giorno dopo giorno, alle nostre vite, ai nostri corpi, ai nostri muscoli? E a questi ultimi, a loro volta, cosa è consentito di fare all’interno della violenza e attraverso di essa? E chiaramente, anche viceversa».
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