Elogio degli orti resistenti
Certamente è Alcide Cervi il riferimento più giusto e più potente per quanti, e sono tanti, in Italia intendano il rapporto con la terra come un rapporto sentito nel profondo […]
Certamente è Alcide Cervi il riferimento più giusto e più potente per quanti, e sono tanti, in Italia intendano il rapporto con la terra come un rapporto sentito nel profondo […]
Certamente è Alcide Cervi il riferimento più giusto e più potente per quanti, e sono tanti, in Italia intendano il rapporto con la terra come un rapporto sentito nel profondo come liberatorio e tutt’altro che soggiogante. Papà Cervi – doverosa una visita al Museo Cervi, una vera casa della civiltà contadina a Gattatico, Reggio Emilia – campeggia sullo stendardo dell’Anpi nazionale con la frase «Dopo un raccolto, ne viene un altro». Questa casa colonica ha raccolto una famiglia dove si mangiavano socialismo e pane, idee e speranze di sottrazione al giogo della doppia oppressione, quella della miseria e della fame e quella dello sfruttamento. Nell’androne, il trattore della famiglia Cervi, furono tra i primi per alleviare la fatica nei campi. Fuori, nella campagna, le viti maritate all’olmo, gli alberi da frutta della tradizione emiliana. Non è di certo un caso che è stato un altro partigiano, Livio Dalla Ragione, a fondare Archeologia Arborea, associazione per il recupero delle antiche varietà di frutta, associazione attiva tutt’ora. Questi sono riferimenti importanti, si può e si deve amare la terra, si può scegliere di appartenere alla terra senza essere servi della gleba. Un percorso di liberazione civile passa dalla campagna, può e deve partire da un diverso rapporto con la terra. Movimenti come quello delle Transitions Town, tra le quali la cittadina inglese di Todmorden costituisce certamente la capofila, rappresentano la risposta al degrado urbano e all’inquinamento.
La generazione di Greta, i millennials che sfilano a migliaia per rivendicare il diritto al futuro e quelli più radicali di Extinction Rebellion, la generazione X, ancora con più convinzione, non devono inventarsi tutto. Se è vero che la Terra è in pericolo, questi ragazzi, specialmente nei paesi di lingua anglosassone, non attraversano il deserto. Prima di loro, altri movimenti radicali hanno formulato teorie e pratiche di riappropriazione della terra, di particelle di terra, qua e là nelle città, provvedendo a liberarle tramite la Guerrilla gardening, coltivazione di terreni o anche aiuole dismesse o abbandonate all’incuria ed al degrado. La stessa Reclaim the streets, congiuntamente con i movimenti per la liberazione delle città dal traffico automobilistico, sono tutti segni di una determinata volontà di cominciare la liberazione della terra a partire dalla terra stessa.
Realizzare orti sociali e condivisi, organizzare scambi di sementi riproducibili, coinvolgere comunità di migranti, contaminare culture e colture, condividere cibi, sapori, profumi diversi, sta significando, dove praticato, far scaturire la liberazione degli uomini attraverso la coltivazione. Lo sviluppo crescente di nuove metodologie agronomiche, alcune vere e proprie filosofie come la permacultura, l’approccio nuovo determinato dall’adozione di metodologie come l’orto sinergico, trovano rispondenza sempre più ampie presso i giovani. Fare l’orto come terapia, fare dell’orto e nell’orto un luogo di liberazione personale e collettiva. Finalmente non si vede più l’ecosistema orto come qualcosa di statico ma di dinamico, in perenne evoluzione e in comunicazione verso l’esterno. Coltivare un orto condiviso o occupato è un modo per curare la terra. Un orto può essere un luogo di resistenza al sistema del profitto ed un orto è luogo simbolico forte e reale di resilienza e di liberazione.
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