Aveva quattordici anni Martin Amis quando mise piede per la prima volta nell’appartamento che suo padre Kingsley aveva preso a Knightsbridge appena separato. Era mezzanotte e pensava di trovarlo solo. Certo non immaginava che in cucina gli sarebbe apparsa una dea in accappatoio: alta, sofisticata, bionda. Con molta tranquillità cucinava per lui uova e pancetta. Era il novembre 1963 e il ragazzo Amis non poteva prevedere che pochi anni più tardi, quando stava ormai diventando un perdigiorno bravo solo nelle scommesse con i cani, a decidere la sua carriera di scrittore sarebbe stata proprio quella bellissima matrigna dandogli da leggere Orgoglio e pregiudizio. Lei e suo padre sembravano all’epoca una coppia da romanzo a lieto fine. Lavoravano vicini e all’ora del drink commentavano insieme quanto avevano scritto durante la giornata. Il loro matrimonio, celebrato nel 1965, era di gran lunga il più cool della swinging London letteraria. Per lei si trattava già del terzo.
Nata a Londra nel 1923 da una famiglia middle-class, disamata dalla madre molto fredda e abusata dal padre troppo caldo, cresciuta da svariate nanny, educata in casa da un’istitutrice, Elizabeth Jane Howard si era sposata per la prima volta nel ’42 con un ufficiale che aveva quasi il doppio dei suoi anni, il naturalista Peter Scott. Avrebbe lasciato lui e l’unica figlia poco dopo la fine della guerra. Fu attrice, indossatrice, annunciatrice radiofonica. The beautiful visit, il suo romanzo d’esordio, vinse nel 1950 il prestigioso John Llewellyn Rhys Prize e le procurò una certa notorietà. Il tema è l’identità femminile in un mondo costruito a misura maschile. Lei intanto di maschi continuava ad attirarne parecchi: dopo molti amanti e non pochi tentativi di violenza, pensò di liberarsi del loro desiderio sposando nel ’59 un faccendiere australiano che si sarebbe rivelato presto un truffatore. Non è difficile pensare che quando conobbe Kingsley Amis, a Cheltenham durante il festival letterario del ’62, la scrittrice credesse di avere finalmente trovato l’uomo giusto.
«Il matrimonio potrebbe essere la difficile, avvincente impresa di vivere in due corpi anziché in uno… quale dei due corpi scegliere ha molta meno importanza di quanto si creda, quello che conta davvero è come lo si abita una volta scelto», aveva scritto nel suo secondo romanzo, Il lungo sguardo, accolto nel ’56 da un notevole successo di critica e di pubblico. Di matrimonio Howard continuerà a parlare nel successivo All’ombra di Julius, pubblicato in Gran Bretagna nel ’65 e ora tradotto in italiano da Manuela Francescon per Fazi Editore («Le Strade», pp. 326, € 20,00), cui va il merito di avere imposto anche da noi una scrittrice dal talento straordinario, a lungo sottovalutata dagli high-brow, tanto che Margaret Drabble la escluse nel 1985 dal suo Oxford Companion of English Literature, e divenuta celebre solo a settant’anni con i cinque volumi dell’autobiografica Saga dei Cazalet (1990-2013). La vita di coppia, quella bizzarra, entusiasmante avventura di abitare due corpi rimane ancora oggi impressa nel testo di All’ombra di Julius per le tre pagine che vi scrisse di sua mano Kingsley Amis e che Jane Howard, in un reciproco gioco di scambio tra innamorati, decise di non cancellare.
Ma cosa racconta questo incantevole romanzo il cui titolo originale, After Julius, suona forse meno accattivante però ha un significato più allusivo? Chi è Julius? Quale vicenda cresce alla sua ombra, quali esistenze si snodano dopo o dietro la sua, dai progetti e dagli impulsi di lui comunque determinate? «Julius lascia la moglie e le figlie e il suo lavoro di editore per andare a recuperare uomini sulla spiaggia di Dunkirk. Il romanzo racconta ciò che accade a tutti loro e il suo tema è la distanza tra responsabilità pubblica e privata», spiega Howard con estrema semplicità in Slipstream, il libro di memorie del 2002. Per narrare questa storia, che è soprattutto una storia di ferite e cicatrici, allestisce tuttavia una struttura ardimentosa: la comprime nei tre giorni di un week-end, ma insieme la espande dentro la mente dei cinque protagonisti ricostruendola a capitoli alterni con la loro voce e secondo il loro sguardo. Vent’anni dopo la morte di Julius in mare, a bordo aveva solo due soldati ancora vivi, la decisione presa da lui in quella lontana primavera del 1940 continua a influenzare la vita dei suoi famigliari e di tutti coloro che ai suoi famigliari si trovano vicini.
Esatta nell’intreccio dei flash-back, dotata di una sensibilità millimetrica per l’innesto delicato tra realtà esterna e mondo interiore, Elizabeth Jane Howard sceglie uno stile levigato ma cangiante, percorso da brividi profondi, per raccontare ancora una volta in All’ombra di Julius la difficoltà di amare e il disperato desiderio di essere amati. La stregonesca «abilità nel ricostruire un ambiente», l’«umorismo delizioso» e l’«acuminata capacità di osservazione», il gusto di lavorare su «situazioni romantiche» senza mai cadere nel «sentimentalismo» sono doni che Howard attribuisce all’adorata Elizabeth Taylor, ma che il lettore dei suoi libri non può non riconoscere anche a lei. Né i ripetuti colpi di scena, come i sobbalzi psichici dei protagonisti, annunciano una conclusione prevedibile. Arrivati all’ultima pagina, quando i giovani sono rientrati a Londra e nella casa in Sussex la vedova Esme ricomincia a leggere Orgoglio e pregiudizio, noi ci domandiamo cosa sarà di quelle coppie.
Ha raccontato Martin Amis che lui e la sua matrigna pensavano che il segreto di Jane Austen fosse la capacità di creare personaggi fatti l’uno per l’altra. Doveva essere felice Elizabeth Jane Howard in quei primi tempi con Kingsley se scelse di affidare almeno una possibilità ai protagonisti di All’ombra di Julius. Certo non sapeva che avrebbe lasciato Kingsley, perché beveva troppo e non la amava abbastanza, né che a più di novant’anni sarebbe morta scapola. Tuttavia noi lettori a quella possibilità ci crediamo. Ce la teniamo stretta.