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Elizabeth Gaskell, meglio l’oscurità della fama volgare

Elizabeth Gaskell, meglio l’oscurità della fama volgareOrson Welles e Joan Fontaine in una scena da «Jane Eyre», film del 1943 di Robert Stevenson uscito in Italia con il titolo «La porta proibita»

Scrittrici inglesi Affidata quasi integralmente al lascito epistolare, «La vita di Charlotte Brontë», fu scritta nel 1857 da Elizabeth Gaskell, che le divenne amica dopo il successo di «Jane Eyre»: da Neri Pozza

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 giugno 2022

«Naturalmente le simpatie di mio padre (e le mie) vanno alla Giustizia e all’Europa contro la tirannia e la Russia»: scrive così a un’antica compagna di scuola Charlotte Brontë – celebrata autrice del romanzo Jane Eyre e di altri all’epoca meno conosciuti – l’8 marzo del 1854. La guerra cui allude è quella di Crimea. Charlotte ha solo trentotto anni, ma la sua salute è devastata dal complesso di mali e privazioni che l’hanno afflitta fin da quando ha memoria. Morirà esattamente un anno dopo, come si legge nella biografia che le ha dedicato Elizabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë (traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani, Neri Pozza, pp. 624, € 25,00).

Accostando l’orecchio a quella frase casuale, oggi di sorprendente attualità, si sentono soffiare gli spiriti vitali di un’esistenza lavorata dal rovello che è eredità maggiore della Grande Rivoluzione, travalicata dalla Francia al mondo. Da una parte il valore settecentesco, illuministico ed elitario, della «simpatia» – letteralmente con-divisione del pathos – dal mondo vittoriano aggiornata a esaltazione della domesticità. Dall’altra, e corrispondente, la costruzione di un «fuori» estraneo, persino minaccioso, e tuttavia misurabile sul parametro della domesticity. Vista dalla sperduta canononica di Haworth, nello Yorkshire, attorno alla quale circola aria malsana, inquinata dai miasmi del vicino cimitero, la «tirannia» dello zar è una forma di potere così lontana, nel tempo e nello spazio, da sfumare nell’impensabile: di lì l’inganno ottico, che consente a Charlotte di liquidare la guerra sulla bilancia delle «simpatie» sue e di suo padre. Tale fiducia non priva di qualche padronale arroganza rientra perfettamente nelle manners epistolari di quella classe media colta e sprovvista di mezzi alla quale lei appartiene.

È sintomatico che nel comporre The Life of Charlotte Brontë, nel 1857, Elizabeth Gaskell si affidi pressoché integralmente al di lei ricco lascito epistolare. Secondo l’uso del tempo, non passava giorno che Charlotte non scrivesse lettere alle amiche, all’editore, ai recensori, tra i quali l’autorevole George Lewes, e a personaggi famosi quali W. Makepeace Thackeray, Harriet Martineau, e la stessa Elizabeth Gaskell. L’amicizia con lei non era di vecchia data, essendo nata dal successo di Jane Eyre. Tutti si chiedevano chi mai fosse questo misterioso Currer Bell, la cui «eroina minuta e bruttina» infrangeva, assieme al canone della bellezza, anche quello della morale sessuale, vista la facilità con cui si invaghiva – lei rifiutata dalla famiglia e cresciuta in un orfanotrofio-prigione – di un uomo sposato e dal passato perlomeno dubbio. Il succès de scandale aveva colto Londra di sorpresa. La «Quarterly Review» definì Jane Eyre un «libro perfido». «Nota o ignota, compresa o fraintesa» – ribatté Charlotte – «non cambierò il mio modo di scrivere».

City eccitante
Londra fremeva per scoprire lo sconosciuto autore di provincia, ma Currer/Charlotte esitava: «allontanarmi da casa! la coscienza mi dice che faccio bene a restare a casa e mi rimprovera aspramente quando cedo all’acuto desiderio di libertà». Alla fine cedette, e di Londra la affascinò la City, con la sua «particolare autenticità». «Nel West End – scrisse – si trova svago, nella City eccitazione». Nella City si trova anche il suo editore, George Smith, fondatore della Smith, Elder & Co., la casa editrice che avrebbe pubblicato tutta la maggiore letteratura vittoriana. Smith la introdusse nei circoli letterari del momento e Charlotte, timidissima, lo seguì. A patto che nessuno sapesse che era lei Currer Bell.

«L’oscurità più profonda è infinitamente meglio della volgare notorietà: non voglio notorietà e non l’avrò»: questa sindrome va sicuramente oltre il classico timore di essere apprezzata con condiscendenza: «Vorrei che non mi giudicaste in quanto donna», scrive a George Lewes (il futuro compagno di George Eliot). «Vorrei che i recensori credessero che Currer Bell è un uomo». Per molto tempo nemmeno gli editori avevano saputo «se Currer Bell fosse un nome vero o uno pseudonimo, se appartenesse a un uomo o a una donna».

D’altra parte però, il segreto sul libro mantenuto persino con i familiari, segnala l’incisione profonda che la separa non solo da quelle creature amatissime, ma prima ancora dalla pure amatissima terra sulla quale vive. Su quel terreno brullo, inospite, il segreto sulla propria identità le consente di gioire due volte. Apertamente, della simpatia tributata alla «signorina Brontë». Segretamente, dell’ammirazione tributata a «Currer Bell»: misterioso nome che circola nella regione e nella nazione, ma che solo lei può ricongiungere al primo.

Postumi della scrittura
Il sogno oscuro «di non essere riconosciuta nello Yorkshire» si fa così realtà. Quando il postino le consegna, in ritardo, un plico della casa editrice, indirizzato a «Currer Bell c/o Miss Brontë», lei imperterrita ribatte: «Cari signori, sarebbe preferibile se in futuro la corrispondenza venisse inviata semplicemente a Miss Brontë, senza l’indicazione del nome Currer Bell, poco conosciuto nel distretto».
È concepibile che, nell’intraprendere la Life, Elizabeth Gaskell non se la sentisse di imporre all’amica un trattamento da romanzo. All’epoca avevano riscosso successo i suoi industrial novels, come Cranford e North and South, nei quali l’industrializzazione veniva precocemente studiata attraverso il filtro delle conseguenti questioni sociali e di gender. Ma quella creatura fragile e fortissima che era stata Charlotte Brontë semplicemente non poteva, dopo morta, essere disciolta in narrazione.

Le lettere consentono di costruire il personaggio dal di fuori, per accostamento e sovrapposizione di blocchi preesistenti, accortamente ritagliati e sistemati secondo le necessità dell’incastro. Facendo in modo che la biografia non si addentri mai né nell’intimità dei rapporti interpersonali, né in quella della scrittura. Rimarrebbe deluso chi si aspettasse di trovare, in questa Life, particolari sull’affettuosa relazione stabilitasi tra Charlotte Brontë e Costantin Héger, direttore e proprietario del pensionnat di Bruxelles nel quale lei aveva vissuto un paio d’anni, nella doppia qualità di studentessa di francese e insegnante d’inglese. Figurarsi: lui un uomo sposato, un cattolico fervente, e lei la devota figlia di un curato anglicano di origine irlandese! Con eguale pudicizia vengono trattati i romanzi che, visti attraverso le lettere, si sottraggono all’interpretazione, per essere seguiti nelle loro fortune editoriali e di pubblico.

Nessuna tentazione di scandagliare quella profondità quasi mistica che per Charlotte era stata la scrittura. Cui lei ha avuto accesso a intervalli discontinui, scanditi da terribili crisi di nausea, di un vomito patologico che finisce col disidratarla. Che le uccide il figlio che sta partorendo, ed è causa della sua prematura morte. Perché è paradossale ma vero: lei, che ha vissuto di scrittura, dei postumi della scrittura muore. Letteralmente.

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