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Elisabetta Montaldo, il costume di una generazione

Elisabetta Montaldo, il costume di una generazione

Il libro «Calipso», nella collana I Lemuri di Baldini e Castoldi

Pubblicato circa un anno faEdizione del 29 luglio 2023

Guardando l’elegante signora che fa la spesa con la carta d’argento non penseremmo mai che se leggesse Calipso potrebbe immedesimarsi completamente nell’eroina dallo strano nome di sirena concepita da Elisabetta Montaldo, con la sua infanzia complicata, i nonni severi di Genova e quelli comprensivi di Procida, l’adolescenza terribile, la fase hippie, il ‘68, il Movimento Studentesco, e poi la Comune, due figli, l’impegno politico e l’attivismo, la pittura, i viaggi in Nord Europa, una frequentazione del movimento femminista o della politica nel segno di un individualismo trasgressivo e ribelle. Questa signora che fa la spesa non racconterebbe mai ai nipoti quante canne si è fatta a suo tempo, in una rigida distinzione che consentiva cannabis e acido ok, ma mai l’eroina. Né ammetterebbe il sesso divertente e libero, con qualche aborto di mezzo e qualche amarezza per i tradimenti e gli abbandoni. Montaldo invece racconta in modo schietto questa vita non facile, in totale sintonia coi tempi, allacciando strettamente gli eventi personali alla storia del paese, con tanto di date di riferimento, che permettono di ricostruire in un istante cosa facevamo noi in quel momento, sorprendendoci di come lei sia già lì quando le cose avvengono.

In un certo senso questo romanzo è l’autobiografia di una generazione di donne che ha vissuto il suo tempo intensamente piuttosto, forse, che consapevolmente, rispetto a tutto quello che cambiava intorno a loro e alle scelte che erano costrette a fare. Scritto in modo fluido e avvincente, con tocchi di autoironia venata di tenerezza e di sensualità spontanea, Calipso non si sofferma a raccontare il magico mondo del cinema, se non il duro lavoro che ci sta dietro, ma narra piuttosto gli incontri con personaggi di ogni sorta, le riflessioni su eventi e situazioni, e soprattutto le passioni-emozioni.

Elisabetta Montaldo, scrittrice e pittrice, è stata costumista di una ventina di film, incluso I cento passi e I demoni di San Pietroburgo, per i quali ha vinto il David di Donatello, e ha lavorato anche col padre Giuliano (e da sola) nell’allestimento di opere liriche, oltre che in pubblicità. Ma nelle 555 pagine del romanzo si parla solo a pagina 374 della prima esperienza nel cinema, quando diventa assistente della costumista Ada e guarda Vittoria, costumista «specializzata nell’ambientazione, che armonizzava i colori dei capi ottenendo sfumature, come stinte dal sole, dall’umano sudore e dalla sporcizia antica.» Per adeguarsi in seguito al mondo patinato della pubblicità ha imparato a camminare con i tacchi e a vestire firmato, ben sapendo che le leggi darwiniane dell’evoluzione facevano sì che «quegli uomini mi avrebbero seguito per strada anche se fossi stata una scimmia purché camminassi col culo fasciato e i tacchi vertiginosi, l’uniforme della schiava.» Gli aneddoti e le vicende che riguardano il mestiere per il quale è più conosciuta si intersecano inoltre con storie di nuovi amori e di amor materno, mettendo spesso in secondo piano il glamour e negandosi del tutto al pettegolezzo.

Nella quarta di copertina si parla del libro come di un romanzo ispirato alla sua vita ma ci sono molti schermi a proteggere la privacy. Conoscendo però non solo la sua biografia ma anche gli altri romanzi da lei scritti, ad esempio Posidonia, è facile rintracciare nella figura di Tatiana, la nonna amata, l’attrice Vera Vergani o in Rafila, protagonista una procidana islamizzata nell’anno Mille, la disponibilità verso altre etnie e colori.

Nel romanzo il suo occhio da pittrice emerge nella descrizione degli scorci di Sardegna, delle viuzze di Procida o dell’esotica Tokyo, di ambienti e paesaggi che descrive con brevi pennellate. La sua esperienza di costumista si rivela invece nella descrizione dell’abbigliamento dei personaggi (oltre che della protagonista) che ci danno subito la sensazione di un tempo, di un carattere e di uno status sociale, e persino dei sentimenti, come deve essere infatti nel lavoro di una brava costumista.

(Per la prima comunione) «Nonna Sara mi aveva fatto confezionare un vestito lungo tutto piegoline, con il velo di organza che arrivava fino a terra e la coroncina di fiori freschi, scarpe e calze erano candide e bianchi gli immancabili guantini. Me ne stavo così addobbata nella sacrestia dell’antica chiesetta sui monti dove la famiglia teneva i suoi morti nel romantico cimitero inglese…Uscii a passi lenti seguendo la musica con solennità, i parenti mi facevano ala nella penombra della chiesa, ma mentre passavo tra loro sentii un grido soffocato: «Calipso!» E la mia mamma interruppe la sacralità lanciandomi un bacio da diva. Indossava una giacca di lino bianco con risvolti neri e un grande cappello nero con una rosa rossa…»

Elisabetta Montaldo racconta spavalda una vita sentimentale e sessuale giovanili in linea coi tempi turbolenti: «Attraversavo l’amore come un ponte tra mondi alieni sapendo che poteva crollare, mi buttavo nel rischio che mi eccitava togliendomi il fiato, inebriandomi del mio potere di donna, poi piombavo col culo per terra e mi consolavo leggendo una poesia di Pasolini.» Ma forse, come sono mascherate le identità così sono «romanzate» le trasgressioni di questo personaggio costretto all’autonomia fin dall’infanzia ma sempre alla ricerca di un corpo da scoprire, di un abbraccio rassicurante, di un gesto affettuoso, elargito da una nonna scapestrata e saggia come Vera, per potersi placare, alla fine, proprio come lei, nell’isola magica dove ha scelto di vivere.

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