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Elezioni, un quadro mosso ma dentro la stessa cornice

Elezioni, un quadro mosso ma dentro la stessa corniceAl voto – LaPresse

Contraddizioni post voto I cambiamenti storici non sono mai lineari. Hanno arretramenti, inversioni apparenti, avanzamenti contraddittori. Bisogna quindi osservare bene ciò che sembra resistere. Le elezioni regionali non le hanno vinte i partiti, ma principalmente dei ‘governatori’

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 24 settembre 2020

Il risultato del referendum e quello delle regionali sembrano contraddirsi. Il primo conferma la percezione diffusa, di lungo periodo, che la politica esistente sia sostanzialmente inutile.

È quindi un risultato ascrivibile all’ondata populista degli ultimi anni, visto che il cosiddetto populismo quasi sempre identifica il ‘nemico del popolo’ con la classe politica. Dall’altra parte, dai risultati delle regionali emergono tre strane forme di resistenza.

La prima è quella del bipolarismo. Sembravamo destinati a superarlo, in Italia come altrove, dopo che i sistemi politici erano stati terremotati dalle conseguenze della crisi economica iniziata nel 2008, quando ‘ospiti sgraditi’ chiamati populisti si sono inseriti nei sistemi esistenti come presenze stabili e non marginali. Ora questi partiti – come il Movimento 5 Stelle in Italia, Podemos in Spagna, e si potrebbero fare altri esempi – sono in forte difficoltà o in declino, e i sistemi politici sembrano ricomporsi attorno alle coordinate abituali. Dal punto di vista elettorale, ci sarebbe addirittura una resistenza sotterranea degli orientamenti politici classici: chi è tendenzialmente di destra vota la destra, chi è tendenzialmente progressista vota il centro-sinistra.

La seconda resistenza sarebbe quindi quella dei partiti tradizionali. Anche in questo caso, dopo la crisi del 2008 era sembrato che i partiti appartenenti alle due famiglie politiche egemoni dal dopo-guerra, quella popolare e quella socialista, fossero avviati a un forte indebolimento. C’è ora una riaffermazione del loro primato? La terza resistenza è quella delle elezioni stesse. Sembrava che l’astensionismo avesse superato ogni soglia di allarme, ma la partecipazione a questa tornata elettorale sembra smentire anche questa tendenza. Quando la posta in gioco è chiara e visibile, gli elettori vedono ancora le urne come un’opportunità per esprimersi e incidere.

Tre strane resistenze dunque. Ma sono resistenze reali? I cambiamenti storici non sono mai lineari. Hanno arretramenti, inversioni apparenti, avanzamenti contraddittori. Bisogna quindi osservare bene ciò che sembra resistere. Le elezioni regionali non le hanno vinte i partiti, ma principalmente dei ‘governatori’. A differenza della crisi economica del 2008, la crisi-Covid non produce, per ora, la richiesta di una trasformazione degli assetti politici esistenti, ma una crescita dell’affidamento alle figure più visibili e capaci di sembrare adeguate ad affrontare il rischio pandemico: quindi le figure esecutive, dal premier ai presidenti di regione.

Il consenso che si è registrato alle regionali è analogo a quello di cui gode il premier Conte (che continua a non trasformarsi in consenso per i partiti di governo): un consenso personale tributato a una singola personalità ritenuta efficace e/o ‘per bene’, sganciata da appartenenze e identità politiche, capace di distribuire benefici immediati o di proteggere dal rischio. Un consenso incolore per figure percepite più come tecnici che come politici, che relativizza il supposto ritorno alle dicotomie politiche tradizionali.

L’assenza di colore politico infatti è rivendicata dai vincitori delle elezioni regionali, ma solo da quelli di centro-sinistra: quelli di destra non sentono mai il bisogno di prendere le distanze dalle proprie origini e dai propri elettori. Su questo piano, si riafferma quindi un processo di lungo periodo: la destra afferma un’identità politica molto netta e tradizionale; il centro-sinistra (a livello regionale come a livello nazionale), nega di averne alcuna. Se bipolarismo sarà ancora, sarà quindi un bipolarismo sempre più privo di una contesa reale, che non polarizza il campo su principi e progetti di società. Un bipolarismo mancante di senso, quindi sempre fragile e aperto, in caso di crisi, all’incursione di nuove forze o al riemergere di ospiti ingrati come il M5S.

Per quanto riguarda la resistenza dei partiti tradizionali, il Partito democratico viene ancora descritto, giornalisticamente, come l’ultimo ‘partito strutturato’. Ma cosa condivide con l’idea tradizionale che abbiamo di un partito? Un partito è identità e organizzazione. Che identità ha attualmente il Partito democratico, cosa esprime, per cosa si batte? In che senso lo si può definire “un partito organizzato”? Non si è invertita la tendenza alla scomparsa di sedi, strutture, militanti, presenza territoriale ed elaborazione culturale che lo caratterizza dall’inizio. Si può dire che resiste l’apparato. Ma un partito può essere ridotto a questo?

Non bisogna confondere il breve con il lungo periodo, la contingenza con il mutamento sostanziale. La contraddittorietà dei risultati di referendum e regionali conferma che viviamo un quadro molto mosso, in cui le trasformazioni di lungo periodo che investono la dimensione politica non sono interrotte. E nella contraddittorietà di questi movimenti, è sempre possibile agire.

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