Visioni

Elettronica e contemporanea, suoni da Oriente e Occidente

Elettronica e contemporanea, suoni da Oriente e Occidente«Only the Sound Remains» di Kaija Saariaho – foto di Andrea Avezzù

Biennale Musica Conclusa la 65esima edizione che guadagna in coerenza con un livello molto alto del programma. «Only the Sound Remains» l’opera di Kaija Saariaho e la diaspora di Joy Frempong

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 28 settembre 2021

Il Leone d’Oro alla carriera attribuito ad una donna – la compositrice finlandese Kaija Saariaho – non è per la Biennale Musica una novità assoluta – ricordiamo il Leone d’Oro a Sofija Gubajdulina nel 2013 – ma oltre ad un riconoscimento che in termini di genere spicca comunque come un’eccezione questa Biennale diretta per la prima volta da una donna, Lucia Ronchetti, ha anche portato in cartellone una presenza femminile insolitamente rilevante: oltre a Saariaho, ricordiamo la compositrice Marta Gentilucci, la sound artist tedesca Christina Kubisch, la vocalist e polistrumentista albanese Elina Duni, la compositrice e performer irlandese Jennifer Walshe, la vocalist/performer svizzero-ghanese Joy Frempong.
Travelling Voices di Christina Kubisch, in cui i cantanti in carne ed ossa della Cappella Marciana si sono alternati con rielaborazioni con vari procedimenti di registrazioni della stessa Cappella Marciana, in una sorta di proiezione nel presente e nelle nuove risorse tecnologiche della tradizione di canto polifonico di una delle più antiche istituzioni musicali del mondo, è stato presentato (così come poi in un altro appuntamento i canti liturgici dell’ucraino Valentin Silvestrov) alla basilica di San Marco: una «location» quasi senza precedenti per la Biennale Musica, e avere avuto accesso a questa prestigiosa cornice è uno dei successi dell’edizione 2021.

NATA a Helsinki nel 1952, Kaija Saariaho si è formata all’Accademia Sibelius, e ha proseguito i suoi studi prima a Friburgo, con Brian Ferneyhough, quindi all’IRCAM, nella capitale francese: parigina d’adozione dai primi anni ottanta, Saariaho si è applicata allo studio del computer e dell’elettronica come risorse per la composizione, di cui ha fatto tesoro per brani orchestrali. Più tardi Saariaho ha orientato i suoi interessi verso l’opera, e oltre ad altri suoi lavori la Biennale ha appunto proposto in prima europea, al Malibran, un’opera in due parti presentata nel giugno scorso a Tokio, Only the Sound Remains, tratta da due drammi del teatro No giapponese, Tsunemasa e Hagoromo. Che il lavoro sia stato realizzato a partire dalle famose traduzioni di questi drammi realizzate da Ernest Fenollosa e Ezra Pound non è un semplice particolare: ammiratore delle culture del Giappone e della Cina, Pound era un fautore dell’incontro di civiltà diverse, e l’opera di Saariaho, che nella sua musica è aperta a molteplici influenze, segue l’ideale di un dialogo di Oriente e Occidente, e nello specifico di una fusione di opera occidentale e di teatro No, e di una contaminazione sul piano della musica e della danza. Nella buca dell’orchestra i quattro vocalist del Theatre of Voices e un ensemble piuttosto ridotto: quartetto d’archi, flauto, con ampio impiego del flauto basso, kantele – la cetra da tavola tradizionale della Finlandia – e un ampio set di percussioni con un unico percussionista; in scena il controtenore Michal Slawecki, il baritono Bryan Murray e il danzatore e coreografo Kaiji Moriyama. Notevole la capacità di Saariaho di sostenere con un organico essenziale una musica che nel primo dramma, più dolente, è più inquieta, animata da una sottile tensione, ma che in tutto il lavoro è sempre interessante e di bel respiro, con giapponismi suggestivi e calibrati; la seconda parte, che ha il carattere luminoso e positivo di una fiaba, si offre in un’evoluzione gioiosa al virtuosismo del controtenore e del danzatore. Only the Sound Remains è un’opera molto equilibrata nell’insieme dei suoi aspetti, godibile e avvincente, che alzandosi da teatro ci si augura di avere l’occasione di rivedere.

INTITOLATA «Choruses. Drammaturgie vocali», la 65sima edizione della Biennale Musica (abbiamo potuto seguire i primi cinque e il penultimo dei dieci giorni della manifestazione) rispetto agli anni scorsi è sembrata guadagnare in coerenza e in un livello più uniformemente alto del programma.
Premiati con il Leone d’Argento, i tedeschi Neue Vocalsolisten, non solo esecutori eccellenti ma veri interlocutori per i compositori nella soluzione di problemi e nella messa a punto di partiture per voci, sono stati i mattatori di questa Biennale Musica 2021. Fra i loro impegni nel programma, e i momenti più significativi di questa edizione, una magnifica esecuzione, assieme con il pure tedesco SWR Vokalensemble, della magnifica Wölfli-Kantata di Georges Aperghis, per sei voci soliste e coro misto, che aveva avuto la sua prima a Stoccarda nel 2006 proprio con le stesse due formazioni vocali e che non era mai stata presentata in Italia (il SWR Vokalensemble ha proposto anche, assieme al Parco della Musica Contemporanea Ensemble, un classico di Morton Feldman, Rothko Chapel, e due novità assolute, Tutto in una volta di Francesco Filidei, su testo di Nanni Balestrini, e Timna, dell’isaraelo-palestinese Samir Odeh-Tamimi).

Joy Frempong, foto di Florianaeby

ASSIEME con Amo di George Lewis (ne abbiamo parlato in occasione dell’apertura della Biennale Musica), i Neue Vocalsolisten hanno interpretato anche Die Einfachen del compositore russo Segej Newski, una «opera documentario» sulla condizione omosessuale nella Russia di un secolo fa, fresca di rivoluzione: lo spunto viene da una lettera sulla propria omosessualità scritta da Nyka Polyakov ad un neurologo che aveva tenuto delle conferenze sulla sessualità: Polyakov è un giovane che prima della rivoluzione è già stato internato e che poi verrà arrestato e sparirà negli anni trenta di Stalin. Il combinato di testimonianze di omosessuali dell’epoca, di immagini video, e di monologhi sovrapposti interpretati dai Neue Vocalsolisten è piuttosto coinvolgente.
Nella motivazione del Leone d’Argento Lucia Ronchetti ha ricordato le grandi virtù dei NV, fra queste annoverando però anche «il loro impegno sociale e politico a favore delle culture musicali discriminate, la collaborazione costante con artisti e attivisti di diverse realtà sociali» che li rendono «un ensemble vocale attivo e in azione, nel senso più forte e profondo, quello creato da Luigi Nono nel suo teatro vocale di protesta, di denuncia e resistenza contro ogni forma di censura culturale».

UN RICHIAMO non rituale, che sembra voler riportare in maniera esplicita il tema della politica e dell’impegno dentro la dimensione della Biennale Musica, cercando forse anche in questo di rimettere al passo questo festival di musica contemporanea con l’apertura ai problemi che ci circondano che si riscontra per esempio nella Biennale di arte contemporanea. Nel loro ringraziamento i NV hanno anche loro citato Nono: «Questo premio significa molto per noi, sotto diversi aspetti: è il premio della Biennale di Venezia, la città di Luigi Nono, che è stato il più importante compositore durante i primi quindici anni del nostro lavoro. Ci siamo concentrati molto sul suo lavoro, e la sua unica, meravigliosa musica vocale ci ha ispirati e orientati».
Per finire un dettaglio. Nella sua deliziosa performance per voce, tastiere ed elettronica, Joy Frempong ha messo un pizzico di twi, la stessa lingua del Ghana utilizzata da George Lewis per il libretto di Amo: c’è da augurarsi che sia solo un inizio, e che la Biennale Musica prenda confidenza con le lingue dell’Africa e della sua diaspora.

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