«A volte penso che la lingua dovrebbe coprirsi gli occhi mentre parla». Lo scrive Anne Carson nella sua riscrittura di Elena di Sparta, nella versione di Euripide, che la poeta canadese fa dialogare con Marilyn Monroe in un librino dal titolo Era una nuvola (a cura di Patrizio Ceccagnoli per Crocetti, si tratta di un melologo, pièce composta per musica e parole). L’aspetto interessante è che la considerazione è ospitata in un passo in cui Carson compone un’etimologia della parola inglese rapture (rapimento) e rape (stupro).

DI VIOLENZA MASCHILE non sanno solo Elena e Marilyn, la storia del pensiero nelle sue declinazioni, che si vada dalle guerre ai vari regolamenti di conti e scambi, ha prodotto secoli di cultura dello stupro in una doppia freccia del tempo, avanti e indietro dall’arte al mito, dalla letteratura alla esperienza quotidiana della relazione fra i sessi. La lingua però, invece di coprirsi gli occhi, non ha colpe se nomina l’esistente. Anzi diventa politica e necessaria nel riconoscere che uno stupro è uno stupro, sarebbe sbagliato cercare sinonimi mitiganti.

Della sopraffazione originaria che è lo stupro conosciamo sia il portato esperienziale e diretto (Lucky di Alice Sebold è forse tra i più lucidi esempi contemporanei, pubblicato nel 1999 a diciotto anni dalla violenza sessuale subita) fino a quello della narrazione mitica.
Accade anche nel caso di The rape of Lucretia (1946), del compositore inglese Benjamin Britten con libretto di Ronald Duncan, che fino a domenica 5 andrà in scena a Spoleto al teatro Caio Melisso con la regia di Giorgina Pi che debutta nel genere dell’opera lirica.

Sia pure attraverso fonti classiche quali Livio, Ovidio e Shakespeare, il percorso della regista e femminista romana prosegue nello scavo filologico di testi inglesi novecenteschi con particolare accento verso le riscritture. E a leggere la storia della nobildonna vissuta nell’antica Roma e morta suicida nel 509 a.c. dopo essere stata stuprata da Sesto Tarquinio (figlio di Tarquinio il Superbo), ci sono molti elementi che raccontano del presente e di «fragilità e fratture ereditate» che vanno affrontate.

PER VANTARSI della castità di sua moglie, precedentemente elogiata durante una serata trascorsa a gozzovigliare, Collatino porta con sé alcuni sodali a conoscere Lucrezia. Uno di loro decide di tornare lì, qualche notte dopo, e la stupra.
Se il filo tramandato è la soverchieria maschile che crede di appropriarsi e di rapinare ogni cosa, quello simbolico scelto da Giorgina Pi è il «lanificium» in cui sono impegnate Lucrezia insieme a Bianca e Lucia, sue ancelle eppure alleate, in relazione. La connessione è spiegata nelle note di regia dove si legge: «Quello della tessitura è un campo semantico che ha implicazioni di grande rilievo nella cultura occidentale. L’arte meticolosa del tessere è assimilata a quella del comporre poesia, e anche al rapporto fra arte e potere, alla brutalità con cui il potere mortifica le ambizioni di autonomia femminile, basti pensare ad Aracne su tutte e al racconto che ne fa Ovidio (…) Tessitura e guerra sono antitetici, proprio come i due ambienti principali di questa storia. Siamo quindi di fronte ad una donna che tenta di tessere la propria vita come se fosse la sua poesia». In questo lavoro di traduzione testuale si incarna la genealogia femminile, si custodiscono secoli di lotte e spazi di libertà.

«L’exploit erotico di Tarquinio – prosegue Giorgina Pi nelle note – compensa i suoi fallimenti politici, la sua incapacità di esprimere valore. L’arma che pone alla gola di Lucrezia è quella che sente puntata verso di sé dal suo fallimento, dallo sfumare della sua figura agli occhi del mondo». Il suicidio non è dunque il sacrificio per un’onta ricevuta da cui è impossibile redimersi, è piuttosto la morsa stretta che si muove tra pudicizia e bellezza, «tentiamo allora di immaginare che lasciamo morire ancora una volta Lucrezia affinché fuori dalla scena non capiti più».

FONDARE CITTÀ, invadere paesi, riscattare il proprio onore, dichiarare guerra sono infatti solo alcuni degli esempi che hanno come denominatore comune l’ostilità verso le donne di ogni generazione nell’immaginarle pretesti sacrificabili. Anne Carson lo chiama «prendere», è tuttavia più simile a un saccheggio – nel verbo greco riferito, arpazein – di cui si intuisce il suono delle unghie che raspano su qualcuno. Come fosse qualcosa.