Elémire Zolla, avversari metafisici nell’orbita del Kitsch
Novecento italiano Nella forma tragicomica del «Minuetto all’inferno», la favola gnostica di due giovani, trasferita in cielo, dove Dio e il Diavolo prendono direzioni opposte da quelle degli esseri umani: riedito da Cliquot
Novecento italiano Nella forma tragicomica del «Minuetto all’inferno», la favola gnostica di due giovani, trasferita in cielo, dove Dio e il Diavolo prendono direzioni opposte da quelle degli esseri umani: riedito da Cliquot
A metà degli anni Cinquanta Elio Vittorini, responsabile dell’autorevolissima collana «I gettoni» di Einaudi, ha tra le mani il dattiloscritto di un giovane che ha meno di trent’anni e si chiama Elémire Zolla: è un romanzo scritto qualche anno prima, tra il 1951 e il 1952, dal titolo enigmatico, Minuetto all’inferno. Il libro è lontanissimo dalla idea che Vittorini ha della letteratura; lo rimanda, anzi, a una tipologia di autori per i quali prova una netta intolleranza. Tutti gli artisti cerebrali, che esibiscono platealmente i filamenti della loro scrittura, sono per lui dei modelli negativi, «un intero filone di letteratura che mi riesce inesplicabile: quello in cui si avverte, deliberata, l’azione speculativa dell’intelletto, come quando vediamo, a una radioscopia, il bario percorrere i visceri che vuol rivelarci». Campione esplicito di questa tendenza, Thomas Mann è consegnato all’esperienza del suo antiromanzo per eccellenza, il Doctor Faustus.
Alla fin fine, contrastate da altri lettori del gruppo Einaudi, tra cui Carlo Fruttero, le riserve di Vittorini capitolano, e il libro di Zolla esce nel 1956, portandosi dietro i residui di quella diffidenza autoriale nel risvolto di copertina: un avvertimento al lettore sull’opera ambigua che ha tra le mani. A distanza di quasi settant’anni, Minuetto all’inferno riappare pubblicato da Cliquot (con una introduzione, equilibrata e efficace di Grazia Marchianò, pp. 260, € 20,00). In un clima intellettuale radicalmente altro, e dopo che Elémire Zolla, morto nel 2002, si è imposto quale studioso eminente delle tradizioni filosofiche orientali e del pensiero religioso, leggere Minuetto all’inferno implica recuperare il preludio di un’avventura intellettuale unica nel panorama italiano e invita a ripensare lo spazio che il romanzo occupa nell’editoria postbellica, oscillante tra crisi ideali e presagi di un presente dolorosamente grigio.
A partire dai personaggi, i cui destini si iscrivono sotto l’ombra del fascismo prima e della liberazione poi, il sentiero seguito da Zolla appare eccentrico, e bizzarro. La sua vocazione, tuttavia, non è per il romanzo realista. Eloquente la restituzione delle giornate della Liberazione: «l’esaltazione diffusa, selvaggia, che gettava fino a loro i suoi riverberi, con una scarica improvvisa di mitragliatore, con la musica dei tanghi e delle canzoni sincopate. Come per i sogni e le esperienze sovrannaturali (che sogni sono), la memoria si rifiutava dopo di dare un resoconto minuto, preciso di quei giorni. Parevano uno solo, e pareva perfino dubbio che fossero stati».
Fin dai i nomi di alcuni degli attori (Lotario Copardo, per esempio, o Edmeo Nepoti) Zolla manifesta piuttosto una sofisticatezza dannunziana, che si riversa in una prosa lessicalmente e stilisticamente assai elaborata, satura di termini preziosi e di sottigliezze psicologiche.
La trama si divide in due parti e segue le storie parallele di un giovane e di una fanciulla: aspirante medico e poi scultore il primo, pittrice la seconda, vocazioni improvvisate e casuali, tali da non garantire nessuna riconoscibile identità. Attorno ai due ragazzi agisce un numero di personaggi appartenenti al demi-monde intellettuale e alla borghesia agiata. Non mancano frammenti di un mondo arcaico, con connesso il peso di antiche magie e di relativi riti. Introdotta da una citazione tratta da Jean Santeuil di Proust, la seconda parte del romanzo modifica il punto di vista sui fatti e colloca il loro svolgimento alle dipendenze di forze onnipotenti, che governando i singoli destini, li indirizzano al loro epilogo.
Zolla trasferisce la scena in cielo e mette a confronto Satana con Dio: di quale idea di umanità costoro siano portatori è esplicitamente indicato. Satana sta dalla parte del pensiero critico e Dio è l’espressione del potere assoluto, che non tollera inquietudine. Satana legge Bouvard e Pécuchet. Dio si circonda dei suoi Angeli come di guardie del corpo arroganti e ribalde. Detesta la verità e esalta la fede. Da una parte stanno il nulla e l’angoscia; dall’altra l’essere e l’umiltà, garanzia di una barbarie felice. L’universo di Satana asseconda l’unica soluzione possibile: «ficcare lo sguardo fin dentro alla ferita, sentirla dagli orli fino alla parte più interna. E renderti conto che la ferita è lo stato normale del tessuto, almeno finora». Nel corso di quella che la curatrice chiama favola gnostica, i due avversari metafisici disegnano direzioni opposte agli esseri umani e alle loro società: Zolla allestisce una rappresentazione in cui Dio sconfigge Satana, ma l’esito è il contrario di un lieto fine. «L’uomo banale» – si legge – «è trafitto dalle più atroci ferite», e questo modello umano si sta affermando nella società del finto benessere.
Nella forma tragicomica di un minuetto, il romanzo datato 1956 annuncia temi e modelli a cui Zolla resterà fedele negli anni. D’altra parte, aveva dichiarato presto in che direzioni andavano i suoi gusti letterari: «Ciò che davvero mi costituiva era l’entusiasmo che provavo per certe opere. Le leggevo e rileggevo: il Tao Te Ching, Alice nel paese delle meraviglie, la vita del Buddha. Viceversa altre letture le tenevo a distanza, mi infastidivano quasi quanto il mondo circostante (come i romanzi di Dickens così carichi di odiosa compassione)». Nel 1959 pubblicherà Eclissi dell’intellettuale, saggio polemico e provocatorio sui rischi della modernità. E come epigrafe sceglierà, non a caso, una frase di San Nilo Abbate: «Colui che si disperde nella moltitudine ne torna crivellato di ferite».
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