È finita da qualche anno, ormai, l’era in cui l’uscita di ogni film Pixar era atteso come un momento speciale, l’arrivo di un oggetto prezioso, curato e perfezionato nell’arco di anni, destinato immancabilmente a sorvolare dall’alto il resto del cinema d’animazione da studio hollywoodiano -per originalità, creatività, profondità e ambizione.

IL MARCHIO di fabbrica che John Lasseter e il gruppo dei fondatori avevano impresso ai primi, leggendari, film della compagnia – un mix di high concept, innovazione tecnologica e sublime invenzione cinematografica – si riconosce nella filigrana dei nuovi lungometraggi. Ma spesso rimane sulla carta, una premessa non completamente realizzata – forse condizionata da tempi di produzione più brevi, costi ridotti e dal ridimensionamento della Pixar – dal suo «statuto speciale», nell’era Lasseter – all’interno del meccanismo industriale della produzione Walt Disney, sempre più standardizzato per franchise/etichetta – Marvel, Star Wars, Disney Animation.
Figlio di questo nuovo contesto, Elemental ha la premessa concettuale alta di film come Soul (sulla morte) e Inside Out (l’anima), ancorato com’è a una storia di elementi – fuoco, aria, acqua, terra; in versione antropomorfizzata- che possono, o non, convivere tra di loro. Il sottotesto – parte anche della storia personale del regista Peter Sohn (newyorkese, con genitori coreani, collaboratore di Brad Bird su Iron Giant e autore del molto sottovalutato The Good Dinosaur) – è ovviamente quello dell’immigrazione. Costretta ad abbandonare il proprio paese, Fireland, dopo esser finita in miseria, la famiglia Lumen migra a Element Town dove – dopo un inizio scoraggiante – papà Bernie apre una bodega di successo che si chiama Fireplace, nel cuore del quartiere popolare di Firetown. Fedele alla fiamma che le brucia dentro, sua figlia Ember (che vuol dire brace) perde la calma molto facilmente, fino ad assumere diverse gradazioni di viola – quando addirittura non scoppia. Un temperamento, il suo, che la rende ancora più antitetica al ragazzo acquatico di cui si innamorerà, Wade Ripple (in italiano, rigolo) -sentimentale al punto da sciogliersi regolarmente in lacrime, come la sua famiglia benestante, che vive in un grattacielo trasparente nei quartieri alti della città.

LE PARTI migliori di questa versione rom-com di Giulietta e Romeo sono quelle in cui Shon e i suoi animatori lavorano sulle potenzialità visive intrinseche alla natura dell’acqua e del fuoco (aria e terra sono curiosamente poco esplorati, come software a uno stadio di evoluzione più grezzo). Lei che mangia bastoncini di legno per «riaccendere» le parti del corpo spente dall’acqua; lui che le arriva in cantina con la perdita d’acqua di un tubo, o si nasconde in un vaso di fiori. Anche la palette dei colori del film è molto bella. Ma con tutto si sarebbe potuto fare di più. Invece, la narrazione è affidata meno alle gag visive che ai dialoghi (più economici: non bisogna animarli), i set della città ricordano quelli di Zootopia (Zootropolis, 2016) e il messaggio «interrazziale» sembra un a priori, invece di scaturire dal cuore del film.