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Einstein e Croce due lettere del 1944

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 30 giugno 2017

Da Princeton, il 7 giugno del 1944, Albert Einstein scrive a Benedetto Croce. Una lettera a conforto dell’attivo impegno politico del filosofo nell’Italia ‘tagliata in due’. Einstein richiama Platone, “il suo sogno di un governo retto da filosofi” e la sua idea “del circolo delle forme di governo”. Ma constata che la filosofia e la ragione, “per un tempo prevedibile”, sono ben lontane dal guidare gli uomini. Esse restano “il più bel rifugio degli spiriti eletti”, una società dove trovano alimento “i vincoli fra viventi e morti”, dove i pensieri elaborati nel corso dei secoli “non perdono mai la loro attrattiva, la loro fecondità e la personale loro magia”. E conclude: “chi realmente appartiene a quella aristocrazia, potrà bensì dagli altri uomini essere messo a morte, ma non offeso”.

La lettera raggiunge Croce a Sorrento il 25 luglio: “ho ricevuto per via diplomatica una lettera dell’Einstein, che avevo conosciuto personalmente a Berlino nel 1931: l’amico che me l’ha portata, mi ha chiesto di lasciargliela pubblicare. Ma io ho detto che ci avrei pensato sopra e che, in ogni modo, essendo molto benevola verso di me, non l’avrei potuta pubblicare se non accompagnata da una risposta”.

Risposta che redige nel pomeriggio del 28 luglio. Pare a me molto significativa la pagina stesa, quello stesso giorno, nel diario, dove leggo: “ripensavo stamane al cosiddetto idealismo attuale, formulato e predicato dal Gentile, e che ebbe fortuna con la fortuna scolastica e poi politica di lui”. È questa l’unica volta in cui Croce fa ragionata e ampia menzione di Giovanni Gentile nei taccuini degli anni 1943-1945. E lo spunto, per dir così, a me pare vada trovato proprio nelle parole che chiudono la lettera di Einstein.

Appartiene o no Gentile a quella ‘aristocrazia’? Dunque, ‘messo a morte’ sì, ma ‘non offeso’, se l’opera sua resterà un retaggio per ‘gli spiriti eletti’? La notizia di Gentile “ammazzato in Firenze” (il 15 aprile) fu appresa da Croce – e registrata nel diario – due giorni dopo, il 17: “ruppi la mia relazione con lui per il suo passaggio al fascismo, aggravato dalla contaminazione che egli fece della filosofia con questo”. Contaminare la filosofia. Croce richiama le sue obiezioni all’attualismo, che aveva motivate fin dal 1913, in un saggio apparso su “La Voce”. Ma, ora, precisa “il diretto rapporto che quel filosofare aveva con l’abbassamento della vita morale, con una sorta di ottusità morale, con la malattia che sotto varie forme è le mal du siècle, del secolo nostro”. Così nel diario.

Nella risposta ad Einstein, Croce si dichiara convinto che la filosofia ha da essere “severa”, ovvero deve ben conoscere lo spazio suo proprio entro il quale operare per rapporto alla dimensione politica: “è un’azione mentale, che apre la via, ma non si arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che può soltanto sollecitare”. Croce sottolinea le “nobili parole” che Einstein rivolge a quanti hanno lasciato “opere di pensiero e di poesia” e, a sua volta, dice che in esse si rasserena e si ritempra. Un bagno spirituale (“quasi la mia pratica religiosa”) che non lo esenta dagli “umili e spesso ingrati doveri” che impongono al filosofo – come a Socrate oplita alla battaglia di Potidea – di partecipare “alla quotidiana, e più aspra e più complessa guerra, che è la politica”.

Nel taccuino leggiamo che Gentile “per la sua mancanza di senso della vita concreta, per intimo disinteresse verso le sue forme necessarie” si è adeguato “ai sentimenti e giudizi volgari o magari alla più disonesta vita politica e morale che abbia bruttato l’Italia e il mondo”. Nella lettera ad Einstein, Croce mostra d’esser consapevole che il compiuto della ricerca in filosofia è provvisorio sempre e, in ogni caso, non consegna applicazioni alla politica, ma, eventualmente, ‘sollecitazioni’. Esse aspettano d’essere, appunto, declinate secondo le forme della politica. “Perciò mi sento oggi, scrive ad Einstein, conforme ai miei convincimenti ai miei ideali, impegnato nella politica del mio paese; e vorrei, ahimè, possedere per essa a dovizia le forze che le sono più strettamente necessarie, ma tuttavia le do quelle, quali che siano, che mi riesce di raccogliere in me, sia pure con qualche stento”.

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