La prima dei Bloomsberries era stata Dora Carrington, anzi Carrington, come la pittrice voleva essere chiamata. Benché non si sentisse mai sicura delle proprie opinioni letterarie, il libro di quella «nuova scrittrice» le sembrò rivelare un talento indiscutibile. «Amo molto il suo punto di vista» scrisse di lei a un amico nel giugno 1927. Il libro è una raccolta di racconti intitolata Rhapsody e uscita all’inizio di quell’anno, l’autrice si chiamava Dorothy Edwards e abitava in una strada anonima e borghese di Rhiwbina, sobborgo a nord di Cardiff, in Galles. Per gli inglesi più o meno una colonia. Nel 1930, dopo averla ospitata a Ham Spray, la casa di campagna nel Wiltshire che divideva con Lytton Strachey, a lei Carrington rivolgerà parole che non suonano di circostanza: «È difficile dirle quanto ami i suoi libri. Li ho letti più volte di ogni libro con l’eccezione di Cime tempestose – non avrei mai creduto che sarebbe venuta qui».
Era uscito nel 1928 anche il secondo libro di Dorothy Edwards, in questo caso un romanzo che attira l’attenzione di David Garnett, altro protagonista del Bloomsbury set e autore ormai affermato del funambolico La signora trasformata in volpe (1922). Alla narratrice, invitandola a Londra, scriveva: «In Sonata d’inverno ha dimostrato di essere un grande scrittore e assolutamente originale: il suo campo è limitato, ma in letteratura e in poesia, a differenza che in architettura, la dimensione non conta…». Era sincero? O i suoi elogi erano soltanto le iperboli di un impunito seduttore, fiducioso di incontrare una ragazza più attraente di quella che nel gennaio 1929 gli parve «bassa e grassoccia», avvilita nei «goffi abiti cuciti in casa», con i denti superiori così «grandi e sporgenti» da deturpare una faccia che avrebbe potuto essere bella? Difficile escluderlo. Tuttavia quegli elogi il romanzo li merita davvero. Adesso disponibile per il lettore italiano nella traduzione impeccabile, esattamente intonata e ritmica, di Francesca Frigerio, Sonata d’inverno (Fazi «Le strade», pp. 174, € 17,00) avrebbe meritato anche una fortuna critica meno distratta, una caduta meno precipitosa nell’invisibilità. È infatti un assoluto, per quanto piccolo capolavoro. Più prezioso perché è anche l’ultimo libro che l’autrice abbia scritto.
Nata nel 1903 a Ogmore Vale, una cittadina mineraria del Galles meridionale, Dorothy Edwards era figlia unica di un’insegnante e di un preside. Il padre era un uomo carismatico: socialista, vegetariano, figura di spicco dell’Independent Labour Party. Nel ’19, due anni dopo la morte di lui, Edwards segue la madre a Cardiff e nel ’24 si laurea allo University College of South Wales and Monmountshire in filosofia e greco. Risale all’anno seguente la pubblicazione del suo primo racconto, The Country House, poi riproposto in Rhapsody. Malgrado intendesse diventare una cantante lirica – dalla musica provengono del resto i titoli di entrambi i suoi libri – continuò a scrivere racconti anche durante il viaggio in Europa che intraprese nel 1926 con la madre, forse desiderosa di offrirle una distrazione dopo la fine catastrofica della relazione con un suo assistente. Avvia in Europa, ma la concluderà da un’amica nello Yorkshire, anche la stesura di Sonata d’inverno. Si manifestano tuttavia già nel corso del viaggio l’amaro sentimento di disappartenenza e l’incapacità rovinosa di radicarsi nella vita che sempre la tormenteranno.
Reso più acuto dall’incontro con gli «scapestrati» di Bloomsbury, tra cui Virginia Woolf le appare come «un levriero di acciaio», il disagio diventa insopportabile quando all’inizio del 1933 accetta di stabilirsi nella mansarda della casa londinese di Garnett e di sua moglie Ray, che le offrono la possibilità di dedicarsi esclusivamente alla scrittura in cambio di qualche ora da trascorrere con il loro figlio più piccolo. Aveva confessato nel suo primo racconto: «è un grave imbarazzo quando una ragazza ha vissuto così sola senza amici e ha fatto sogni sul futuro e sull’amore e si è costruita, come fosse vero, un mondo tutto suo; poi all’improvviso in questo mondo irrompe qualcuno che non è solo un sogno ma anche un fatto, e il fatto sembra entrare perfettamente nella cornice, e se non entra lei lo forza, e resta a piangere e a rompersi il cuore perché non può rinunciare né ai sogni né alla realtà». Benché a Cardiff non riesca a lavorare perché si sente ormai lontana da un ambiente che pure le appartiene e la cui differenza rivendica per sé, a Londra si trova fuori posto tra gli highbrow che definisce suoi «nemici ereditari»; non sa mutare in una ragazza diversa la «cenerentola gallese» descritta più tardi da Garnett. Tornata dalla madre a Rhiwbina in dicembre, all’alba del 6 gennaio 1934 viene trovata morta sui binari del treno. In tasca un biglietto: «Mi uccido perché non ho mai amato sinceramente nessun essere vivente in tutta la mia vita. Ho accettato gentilezza e amicizia e perfino amore senza gratitudine, e non ho dato niente in cambio».
L’impossibilità di comunicare e stringere legami, anche di assimilarsi in un luogo e cogliere l’occasione di una frattura interiore per imporre un cambiamento alla propria rigida esistenza; la costrizione letargica dentro un universo paralizzato sono i temi su cui è costruita l’architettura di Sonata d’inverno. Adottando la forma tripartita di una sonata, se i due capitoli centrali sono saldati tanto dalla continuità cronologica quanto dalla presenza di un ospite, Edwards imprime al testo un ritmo squisitamente musicale grazie all’infinita variazione e ripresa di lessemi e sintagmi, alla ripetizione di immagini sequenze, ricordi. La narrazione è condotta in una terza persona atona, per quanto sia udibile a tratti il timbro della voce autoriale; l’azione si svolge in una località e in un tempo indefiniti, la sua durata è quella di un inverno. «C’è, inoltre, qualcosa di piuttosto sgradevole nell’inverno; è freddo e gelido e tutto pare immobile, e tuttavia si ha l’impressione che nulla resti quieto» legge verso metà del romanzo una sua esatta mise en abyme.
Della stagione che racconta, l’autrice utilizza l’intera tavolozza: tra le infinite sfumature di bianco e di grigio e di nero risaltano, quasi sparse a caso sopra una coperta di neve, pennellate di colore come un abito da ballo arancione. Lo stile, modernista e dunque anche intenzionalmente naïf, si direbbe denudato più che spoglio, raffreddato con il ghiaccio, terso ma in profondità increspato da brividi.
I personaggi sono gli attori di un dramma da camera e la scena è composta da due case: due giovani sorelle vivono con la zia e un cugino nella casa bianca sulla collina davanti a cui si stagliano tre abeti; una ragazza molto meno istruita e meno agiata abita con la madre e il fratellino in una più popolare casa di paese dove affittano una stanza a un impiegato. L’impiegato, poiché lo invitano spesso a suonare il violoncello, si illude di ridurre la distanza anche sociale con la famiglia della casa bianca. Le donne sono silenziose, quasi tutti gli uomini non fanno che parlare. Però le donne pensano: «forse se si potesse imparare a essere ricettivi rispetto a ogni sensazione e a ogni impressione che ci colpisce, trascurando del tutto ciò che ci aspettiamo o ciò che desideriamo, saremmo perfettamente felici» afferma per l’autrice la sorella maggiore. Arrivi e partenze, incontri intenzionali o fortuiti, percorsi diritti o circolari non si direbbero spostare niente. Malgrado bucaneve e crochi alla fine pungano il suolo, un sentimento di rinuncia sembra ibernare l’esistenza di ogni personaggio, bloccarne l’emotività e la segreta inquietudine. Più dei silenzi o delle parole ci narra di loro il paesaggio, limitato nello spazio ma rappresentato da Edwards con una varietà sorprendente di luci, forme, suoni. «Il paesaggio nei romanzi di Thomas Hardy è più di uno sfondo per la trama. È molto più di questo – è perfino più importante di ogni personaggio; è quasi il protagonista» scriverà in un saggio del 1929. L’ultimo paesaggio che videro i suoi occhi fu invernale: chissà se da qualche parte all’orizzonte c’era una casa bianca con tre abeti.