Educazione siberiana e socialista
L'incontro Parla Nicolai Lilin, lo scrittore autore de L'educazione sibeiana. «Ho preso le armi in mando molto presto, da noi era molto importante crescere con il senso del dovere, dovevamo difendere la patria, la famiglia, la fede»
L'incontro Parla Nicolai Lilin, lo scrittore autore de L'educazione sibeiana. «Ho preso le armi in mando molto presto, da noi era molto importante crescere con il senso del dovere, dovevamo difendere la patria, la famiglia, la fede»
Dopo gli approfondimenti sulla Transnistria e sui combattenti italiani in Donbass (Ucraina), pubblicati nei mesi scorsi su questo quotidiano, lo scrittore russo Nicolai Lilin – autore tra gli altri di Educazione siberiana – ha accettato di incontrarmi per rilasciarmi questa intervista.
Sei originario della Transnistria ma quasi nessuno conosce la storia del tuo Paese.
La Transnistria era la parte più industrializzata e più ricca della Moldavia, quando era una ex Repubblica sovietica, ma anche di tutta la zona del sud-ovest sovietico perché lì c’era la più alta concentrazione di fabbriche militari dell’URSS. Fabbriche, magazzini e sistemi di trasporto all’epoca innovativi; gli altri venivano da noi ad imparare come costruire. Questo enorme apparato bellico venne improvvisamente demolito quando Eltsin e la sua banda di pseudo democratici annunciarono a tutto il mondo che l’URSS si era sciolta, andando contro il referendum popolare. Iniziò così la divisione dei beni della Moldavia e degli altri Paesi. Nel ‘91 nella nostra Repubblica il 97% votò per rimanere all’interno dell’URSS. Tutti i sovietici sapevano che l’unione portava vantaggi e profitti a tutti. L’Unione Sovietica fu unificata attraverso il sacrificio ed il sangue, sono morti milioni di persone. Mio nonno, anche se era anticomunista, diceva sempre che la più grande impresa compiuta dai comunisti fu quella di aver unito l’Unione Sovietica e che bisognava tenerla unita perché era il nostro Paese. Era bello stare tutti insieme, avere una valuta, una costituzione, potersi muovere liberamente…perché un ragazzino che nasceva in un villaggio di montagna del Daghestan ma voleva diventare un ingegnere aeronautico, poteva andare a Mosca, il governo gli dava questa possibilità e lui poteva diventare un ingegnere, magari un nuovo Mikojan. Quando tutto crollò, la Transnistria divenne quel pezzo che tutti vogliono, il profitto era talmente grande che faceva gola a tutti. In questo modo, nel 1992, la guerra arrivò da noi.
Che ricordi hai della guerra?
Se leggi Wikipedia sembra che i moldavi tentarono di riannettere la Transnistria che nel frattempo si era proclamata indipendente. È una mezza verità. I moldavi prima di tutto non volevano uscire dall’Unione Sovietica, uscirono perché alcuni politici corrotti, pagati dagli oligarchi occidentali, sfasciarono l’URSS. Da noi arrivò un esercito di mercenari a pagamento provenienti da tutto il mondo: ungheresi, tedeschi, gente dei Paesi baltici. Se la guerra durò solo due mesi è proprio perché la gran parte del popolo moldavo era contraria e non voleva invaderci. Il numero più grande di vittime ci fu durante i primi giorni, quando la gente fu semplicemente massacrata mentre, spaventata, cercava di tornare a casa. La prima resistenza, quella più consistente, fu popolare. Noi ragazzini percorrevamo le strade con le biciclette e raccoglievamo munizioni, toglievamo ai morti le armi e altre cose utili. Seguivamo i movimenti dei mezzi militari e li comunicavamo ai grandi. Capitava anche di sparare con il kalashnikov in conflitti a fuoco. In quel periodo la gente del mio palazzo abitava a casa mia perché avevamo l’acqua del pozzo e diverse scorte di cibi in scatola. Negli appartamenti non c’era luce, né gas, staccarono anche l’acqua in tutta la città perché i mercenari avevano cercato di avvelenarla. C’erano poi diversi anziani che avevano bisogno di medicine; nel nostro cortile avevamo un piccolo lagher di rifugiati.
I media ritraggono la Transnistria di oggi come un porto franco per trafficanti, terroristi, mafiosi.
Lo è purtroppo ma bisogna anche capire cos’è un porto franco. Il problema della Transnistria è ben diverso dalla pistola venduta sottobanco, perché la microcriminalità è presente ovunque, fa parte della globalizzazione. Anche l’Italia oggi è un porto franco perché può entrare chiunque. Sai quanti ex militanti Isis – che poi non sono mai ‘ex’ perché quando sei entrato in quella merda esci solo con le gambe in avanti – vivono qui? Quanta gente che ha commesso crimini in Africa è venuta qua? Per essere chiari, io non credo ai barconi. Sui barconi arrivano i poveracci sfruttati dai capitalisti, un terrorista che ha fatto la guerra e ha guadagnato i soldi arriva in aereo con documenti falsi, tranquillo, sereno. I reclutatori ad esempio viaggiano con documenti americani e hanno le porte aperte ovunque. In Cecenia ho fatto fuori un po’ di persone che avevano passaporti americani.
Cosa ti auguri per la Transnistria?
Mi auguro che ritorni a far parte della Moldavia perché si tratta di una stessa identità geopolitica, di uno stesso popolo, siamo fratelli. Il presidente moldavo Dodon ha già dichiarato che è pronto ad assumere nei confronti della Transnistria qualsiasi posizione pur di aprire un dialogo, vorrebbe dargli l’autonomia, quello che il mio Paese ha sempre voluto. L’unica cosa giusta è il ricongiungimento rimanendo autonomi, anche con la propria moneta ma all’interno della Moldavia. In questo modo ci toglierebbero l’embargo e il mio popolo ricomincerebbe a respirare. Perché i governanti invece fanno marcire l’economia? Il problema non lo vuole risolvere chi specula sulla separazione e sull’illegalità.
Sei cresciuto a stretto contatto con le armi e con la violenza, quali sono state le conseguenze di questa educazione?
Ho preso le armi in mano molto presto, mio padre e mio nonno mi hanno insegnato come usarle. Da noi era molto importante crescere con il senso del dovere, dovevamo difendere la patria, la famiglia, la fede. La mia era una famiglia criminale, mio nonno rapinava le banche e mio padre i furgoni blindati ed entrambi hanno avuto una discreta esperienza carceraria. In guerra mio nonno era stato un cecchino, come quasi tutti i cacciatori siberiani; era nello stesso convoglio che aveva portato il grande Vasilij Zajcev a Stalingrado. Spesso mi dicono che ho avuto una brutta infanzia, forse è vero ma a me piaceva così. Quell’elemento mi avvicinava ai grandi, mi sentivo responsabile. Forse è sbagliato ma mi sento fortunato perché se non avessi ricevuto quella formazione non so come sarei sopravvissuto nella guerra cecena. Era un mattatoio dove ho visto scomparire persone molto più forti di me. La cosa più semplice è essere ammazzati dal nemico, in certi casi anche una fortuna. La cosa peggiore è quando cominci ad essere sopraffatto dalla guerra perché ti trasformi in un mostro. Ho visto persone andare fuori di testa, sono diventate sadiche e distruttive per se stesse e per chi avevano intorno. Io sono riuscito ad evitarlo perché da piccolo mi hanno spiegato i limiti. La dignità della caccia mi ha aiutato molto: non uccidere mai per divertimento. Questo rientra nella cultura delle persone che hanno vissuto un rapporto viscerale con la terra e con il bosco. Quando vivi nella foresta non puoi prendere più di quanto non puoi portare addosso, devi vivere dell’essenziale. La frase che riporto in Educazione siberiana, «un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore possa amare», è un detto siberiano che ripeteva spesso mio nonno.
Nel libro «Caduta libera» hai raccontato la tua esperienza come cecchino nella guerra in Cecenia. Qual è stato il ruolo di quel conflitto?
La guerra era comoda per tutti quelli che volevano guadagnare sull’illegalità che si era creata in Russia. Chi ha organizzato la prima guerra cecena ha raggiunto il suo scopo: ha lavato un sacco di soldi, ha creato il terrorismo islamico e ha fatto girare un’enorme quantità di eroina. Tutti hanno avuto qualcosa.
Un giorno riuscimmo ad uccidere un cecchino nemico molto abile; utilizzava un fucile austriaco fatto a mano e cartucce svizzere. Quando mi misi a calcolare quanti soldi costava un operatore del genere, capii che servivano 100mila euro solo di armi e munizioni. Capisci che il terrorismo islamico non è un movimento rivoluzionario che si basa sulla fede, è una mafia. Le grandi famiglie saudite pagarono e crearono dei gruppi terroristici chiamandoli con il proprio nome, per vantarsi di fronte ai loro simili sostenendo di aver fatto qualcosa di importante per l’Islam nel mondo. Questi mercenari guadagnavano per loro l’onore, come ai tempi delle crociate.
In quali forme il terrorismo islamico si riproporrà in Occidente?
Per capire come si riproporrà bisogna comprendere prima il fenomeno. L’occidentale crede ancora che il terrorismo islamico sia legato in qualche modo alla fede, in realtà il criminale islamico è un mercenario che ha inventato una scusa più nobile. Oggi esistono vari gruppi di mercenari legali al mondo, si tratta di grandi organizzazioni militari private; se hai i soldi li puoi ingaggiare per qualsiasi scopo, persino per occupare un piccolo Paese africano. Io tra l’altro ho lavorato in Israele, per circa 3 anni, in una di queste compagnie quando si stavano ancora formando. Poi ci sono le organizzazioni illegali di mercenari: uomini con esperienza militare, che attraverso dei contatti, svolgono delle operazioni. Sono pagati in nero e assunti come consulenti, si fa di tutto per non dimostrare legalmente chi siano realmente. Infine ci sono le organizzazioni islamiche, mafie che gestiscono il più grande numero di mercenari al mondo. Possiedono uno strumento di propaganda formidabile che è la religione. Quando vanno a reclutare i ragazzi nei Paesi poveri islamici usano il pretesto religioso: gli dicono che sono stati scelti da Dio, che potranno fare la differenza. Col tempo comunque tutti quanti, perché non sono stupidi, capiscono che non c’è niente di religioso in quello che fanno. In Ucraina ad esempio c’è un intero battaglione dell’Isis integrato regolarmente nell’esercito ucraino del quale nessuno parla. Alcuni miei ex colleghi mi hanno inviato delle foto che ritraevano i nazionalisti ucraini di Pravyi Sektor (Settore Destro ndr) e il loro capo Dmytro Yarosh a pranzo con combattenti dell’Isis di origine cecena, daghestana, kirghisa, kazaka.
Quali saranno i futuri sviluppi politici in Ucraina?
È molto difficile fare delle previsioni perché il potere attuale in Ucraina è instabile. Il Paese è spaccato, una parte ha accettato il nuovo potere, l’altra invece, piuttosto che accettare di essere comandata dai nazisti, ha preso le armi in mano e lottato per la difesa della costituzione. Inizialmente il Donbass non voleva l’indipendenza, voleva ripristinare la costituzione del Paese e avere dei rappresentanti in parlamento. La frattura ormai è insanabile. In Donbass le persone hanno ricevuto un’educazione sovietica, questa cosa può piacere oppure no ma è un dato di fatto. Se sei nato antifascista, nel senso pieno del termine, non puoi accettare che venga esposto in un luogo pubblico il ritratto di Bandera, o la svastica in un supermercato come avviene a Kiev.
Hai letto dei neonazisti che hanno manifestato contro Poroschenko?
Sì ma queste sono operazioni che si pagano, lo fa anche Putin in Russia. Pagano le manifestazioni degli oppositori per pulirsi la faccia di fronte all’Occidente, come per dire: i nazisti sono contro di me, quindi io non sono nazista. In queste cose non credo per niente, credo invece in quello che ho visto, ad esempio ad Odessa nel 2014, quando quegli stessi nazisti, accompagnati dalla polizia e dalle forze armate, hanno bruciato vive 50 persone nella Casa dei sindacati. Questa è la realtà di quel regime.
Cosa pensi dei combattenti internazionalisti in Donbass?
Credo che la guerra sia il più grande fallimento umano. Purtroppo viviamo in tempi molto confusi e i giovani in Occidente cercano di sfogare la loro voglia di giustizia, la loro rabbia per alcune situazioni che vivono qui. Vanno nei posti dove sentono di essere utili. Non posso giudicarli dal punto di vista umano, soprattutto quando fanno dei gesti come questi, quando un uomo decide di prendere parte ad un conflitto. Oggi non prenderei più le armi in mano, ma capisco che molti ragazzi si sentano traditi dai propri rappresentanti politici. Pensa come si sentono quei ragazzi di sinistra che partecipano ad un raduno antifascista dove si esibisce la Boldrini, Renzi, Grasso, gli stessi che hanno ricevuto a Montecitorio il neonazista ucraino Andriy Parubiy. Posso capire i ragazzi italiani che queste cose le sanno, che hanno dei valori, e che pur di dimostrare ai loro compagni e compagne nel Donbass che non sono dei traditori prendono la borsa e vanno a combattere. In Venezuela sta avvenendo la stessa identica cosa e di nuovo la sinistra italiana da che parte sta? Dalla parte sbagliata. Così come ha fatto in Libia e in Siria. Ti rendi conto che tutti i partiti della sinistra italiana hanno sostenuto delle cose che ideologicamente sono imperdonabili? Per una cosa così, una persona chiara e onesta di coscienza dovrebbe impiccarsi, perché solo togliendosi la vita potrebbe lavare via la vergogna.
Alcuni fascisti italiani hanno combattuto tra le fila delle Repubbliche Popolari, altri tra quelle ucraine. Come te lo spieghi?
Oggi le persone di destra in Italia, quelle affascinate dal fascismo, stanno rivalutando alcune idee socialiste, proprio a causa della mancanza di una sinistra. Alcuni sono andati a combattere per il Donbass perché si sentono rappresentati da un’ideologia che dovrebbe essere opposta al loro pensiero. Quelli che vanno a combattere per l’Ucraina sono invece rimasti fedeli ad una linea atlantista della destra, quella costituitasi in chiave antisovietica dopo la vittoria degli Alleati. Quella destra italiana che cominciò a servire il nuovo padrone statunitense e generò anche il terrorismo.
Che ne pensi del legame tra la Lega e la Russia di Putin?
Sono un internazionalista e voglio abbattere i confini, non capisco per quale motivo il continente euroasiatico non debba essere unito. Questo muro lo vuole chi considera l’Europa come suddita e consumatrice dei propri prodotti, cioè gli Stati Uniti. Se la Lega agisce da ariete per abbattere questa barriera sono disposto a votarla. Una volta che non c’è più il muro, posso soffermarmi a guardare tutte le questioni etiche. Che altro posso fare? La sinistra non c’è. Io voterei un partito comunista in Italia, se ci fosse. Ma conosco i comunisti italiani, purtroppo non riescono ad andare oltre la barriera architettonica che si sono costruiti nella loro testa nel ‘68. Hanno sostituito la sovrastruttura con la struttura e cominciato a difendere cause che non hanno niente a che fare con la ragione storica dell’esistenza della sinistra stessa. Per chi dovrebbe lottare la sinistra? Per le masse popolari, per i diritti dei lavoratori e dei cittadini. Invece quali sono oggi le sue priorità? Diritti astratti. A me oggi vogliono convincere che il diritto di una persona di manifestare liberamente la propria categoria sessuale è più importante dei suoi stessi diritti di lavoratore, di cittadino, di studente. Salvini è un prodotto di questa sinistra, loro lo odiano ma lui è il loro figlio. È arrivato al potere appropriandosi delle questioni che loro hanno abbandonato. Quando qui ci fu il movimento dei forconi, ad esempio, tutti lo deridevano, io invece pensavo che fosse un momento positivo anche solo per il fatto che si rivoltavano all’attuale andamento delle cose. Avevano un’inerzia politica. A cosa avrebbe portato? Non lo potevamo sapere ma l’importante era accendere la scintilla come sosteneva Lenin. La sinistra avrebbe dovuto cogliere queste dinamiche e arrivare lì, come quando Lenin arrivò a San Pietroburgo in rivolta; organizzò le masse mostrandogli l’obiettivo e fece la rivoluzione. Il problema è che noi Lenin non ce l’abbiamo, cazzo (ridendo ndr). Da noi gli intellettuali una rivolta del genere la dipingono negativamente come populismo.
Come hai affrontato il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, avvenuto durante la transizione dal comunismo al capitalismo?
Adesso che ho quasi quarant’anni mi guardo indietro e penso alla mia infanzia, al destino di altri ragazzi come me; io sono uno dei pochi ad essere ancora vivo. Bisogna dire che il cambiamento così veloce e immediato dal socialismo comunista sovietico alla società consumista occidentale ci ha traumatizzato. Abbiamo dovuto imparare a vivere in un mondo totalmente diverso, per il quale non ci avevano preparato. Molti non sono stati in grado di ritrovare la propria strada, c’era un’enorme confusione. Di giorno ci raccontavano quanto era grande il nostro Paese e di sera guardavi i film e ti rendevi conto di far parte di un popolo di antieroi perché quel simpatico Rambo ammazzava i tuoi connazionali, tutti ubriachi e con i denti storti. La mia generazione è stata decimata da questa bomba culturale.
Esistono spazi nella società italiana in cui ritrovi degli aspetti della tua educazione siberiana?
Sì, nelle regioni dove ancora esiste una forma di organizzazione arcaica legata alla collettività. Ad esempio nell’entroterra sardo oppure in Veneto dove ho una casa in campagna. Lì hanno una un’etica e delle regole simili a quelle della società in cui sono cresciuto. È una terra di contadini, gente che rispetto e apprezzo e che insieme agli operai delle fabbriche formano la vera nobiltà della classe dei lavoratori.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento