Senza seguire un ordine cronologico, ripassando vicende di migranti transitati attraverso campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale, il Guatemala della United Fruits, la Florida con le sue vivaci comunità ebraiche, e anche la miseria e il silenzio dei nativi maya, il guatemalteco Eduardo Halfon fa alternare gli scenari di Lutto (Il Saggiatore, p. 117, € 19,00) seguendo i fili della trama – se di trama si può parlare – con un gran senso dell’ironia ebraica. I molteplici intrecci familiari tendono via via a concentrarsi nelle cupe indagini del protagonista intorno a una annosa questione di cui in famiglia è proibito parlare.

Provvisto di due nonni ebrei libanesi, e di altri due nonni ebrei polacchi, il protagonista di questo bel romanzo in buona parte autobiografico nasce e cresce in Guatemala all’inizio degli anni Settanta, e ancora adolescente si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti. Nel paese delle grandi illusioni, Eduardo – diventato Eddy – non si ritrova comodo, così che la sua irrequietezza lo porterà sempre altrove, soprattutto nella natia America centrale. Mentre nella vita quotidiana adotta l’inglese «come una specie di costume di scena che mi permetteva di entrare e di muovermi con libertà nel mio nuovo mondo», i suoi libri li scriverà in spagnolo. Il nodo del romanzo sta nel fatto che i vecchi della famiglia custodiscono da molti anni e con grande disciplina un segreto, un segreto luttuoso, di cui Eduardo è capace di cogliere alcuni segni, tenui tracce che lo riporteranno a Amatitlán, in riva al lago guatemalteco dove da ragazzo passava le vacanze estive. La domanda è: com’era morto, quando era ancora un bambino, il fratello del padre, il piccolo Salomón di cui si diceva fosse caduto nel lago? Nel villaggio abitato da fantasmi ex umani la vecchia guaritrice maya enumera sì un lungo elenco di bambini annegati ma non quello di cui Eduardo va cercando notizie. E dunque Salomón era davvero sparito nelle acque una volta cristalline e adesso oscenamente inquinate del lago? O la sua non era altro se non una leggenda familiare?

Con una prosa asciutta e delicata, nutrita di inconfondibili echi poetici bolañiani, ben resa in traduzione da Ilide Carmignani, Halfon finge di scrivere una specie di giallo ma in realtà si occupa di ossessioni, di esilio, dello specchiarsi del nuovo mondo nel vecchio, di genocidi antichi e moderni, di crudeltà e violenze coloniali. Portato controvoglia da un’amica tedesca a visitare un ex campo di concentramento nazista nei pressi di Berlino dove era stato rinchiuso il nonno polacco, Eduardo scorge a ridosso del campo un sobborgo dove donne e bambini si godono una domenica di sole come facevano settant’anni prima i loro antenati nello stesso luogo, e confessa che la noncuranza dell’uomo davanti agli orrori provocati lo spaventa più delle stesse catastrofi. La stessa indifferenza e lo stesso colpevole oblio li ritrova nella regione dell’incantevole lago dell’infanzia, ora trasformato in un inferno post industriale.

Halfon oscilla tra uno sguardo impietoso e per nulla ottimista sul futuro e la tenerezza con cui tratteggia i suoi personaggi, senza cedimenti a una qualsivoglia retorica o a lungaggini innecessarie. Fino al finale la cui allegoria sta al lettore interpretare: «Continuai ad avanzare, entrando nella scia della canoa, entrando ancora di più, affondando un po’ di più, e pensando tutto il tempo ai bambini che in quelle acque avevano perso la vita, ai bambini che erano entrati nel lago e scesi sul fondo e là erano rimasti per sempre, ai bambini che ormai non erano più figli di nessuno e fratelli di nessuno, ai bambini le cui ombre di bambino camminavano ora con me, tutti insieme, tutti re del lago, e tutti di nome Salomón».