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Edna O’Brien inscrive i cliché irlandesi in una cornice sia vendibile che virtuosa

Edna O’Brien inscrive i cliché irlandesi in una cornice sia vendibile che virtuosaUn ritratto di Edna O’Brien da giovane

Narrativa Da un paio di anni Einaudi sta pubblicando alcuni fra i best seller di Edna O’Brien, compresi quelli del passato recente: va in questa direzione la scelta di far tradurre […]

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 9 settembre 2018

Da un paio di anni Einaudi sta pubblicando alcuni fra i best seller di Edna O’Brien, compresi quelli del passato recente: va in questa direzione la scelta di far tradurre all’encomiabile Giovanna Granato uno dei romanzi dalla trama più irlandese, Un feroce dicembre (pp. 299, € 18,00). Uscito nel 1999 a completamento di una trilogia-affresco dell’Irlanda contemporanea (fanno parte del ciclo anche Lungo il fiume e Uno splendido isolamento), il libro il cui titolo originale è Wild Decembers si presenta come l’ardito esercizio di stile della maturità espressiva di O’Brien, che si produce in una splendida performance narrativa intrecciando personaggi, ambienti e circostanze rinvianti ad altrettanti cliché della propria tradizione letteraria.

Non a caso, a queste pagine «di amore e odio», come riportò candidamente l’Irish Independent, si è ispirato un regista non proprio di nicchia come Anthony Byrne – sono sue alcuni episodi memorabili di Peaky Blinders – per girare un’omonima serie televisiva di sicuro successo nei paesi anglosassoni.

Chi fosse tentato di liquidare Un feroce dicembre come una somma opportunistica di stereotipi facilmente vendibili troverebbe conforto in chi sostiene che Edna O’Brien riscriva da sempre la medesima storia: quell’educazione sentimentale per giovani donne di campagna con cui scosse le platee europee negli anni Sessanta. Tuttavia, un giudizio così frettoloso vanificherebbe l’occasione di ammirare questo esempio piuttosto raro di letteratura canonica al suo grado zero di chiusura e, al tempo stesso, di narrativa commerciale al suo massimo livello estetico e predicativo.

In letteratura, come in cucina, conviene giudicare il prodotto, non tanto la ricetta; e, al di là della lista degli ingredienti, quello che conta è la scrittura che li allestisce. «La più talentuosa», ha detto Philip Roth di Edna O’Brien. Anche in questa prova l’autrice dà infatti prova di un brio narrativo sempre diverso, elegante e seducente, persino nei momenti di maggiore densità emotiva. In Un feroce dicembre si alternano registri in contrappunto e si accumulano inserti da documenti giuridici e stralci di verbali di polizia, lettere dal carcere e telegrammi, poesie d’amore e adagi su Cuchulain, Brian Boru e altri eroi delle leggende celtiche. Non pochi degli inserti e delle digressioni strizzano l’occhio al topos per eccellenza della letteratura irlandese (ancorché stranamente misconosciuto in Italia) su cui si basa molta della fortuna di Somerville e Ross, Liam O’Flaherty, Frank O’Connor e Brian Friel: la macchietta da palcoscenico, ossia le maniere di chi vive la vita come la recita di un ruolo fisso.

E l’insistenza sui luoghi comuni riflette la sfrontatezza con cui nel romanzo sono esibiti i motivi più scontati e gli sviluppi più prevedibili, magari esplicitandone fin da subito la potenziale valenza metaforica e addirittura mitologica. Questi passaggi – per esempio quello in cui il rumore del primo trattore mai visto in paese è paragonato al gemito di una strega (Banshee) – rivelano l’eco di Faulkner e permettono a O’Brien di svelare il potere lisergico e reattivo di quegli stessi miti, soprattutto di quelli legati al sangue e alla terra che cagioneranno l’epilogo tragico.

Lo svelamento è reso possibile dalla capacità della voce narrante di rimodulare le associazioni più automatiche e i cliché, trascendendoli dopo averli assecondati nei dettagli e averne così mostrato alcun risvolti interni, a volte crudi e comunque meno riconoscibili, fino a metterli in apparente contraddizione con la loro stessa natura. Accade nella descrizione di uno dei personaggi principali, Mick Bugler, detto Pastore, tornato dall’Australia a reclamare l’eredità di alcuni acri sulla stessa collina dove insiste la fattoria di Joseph Brennan. Mick incarna molte delle qualità di attrazione e paura con cui si è soliti ritrarre l’esiliato, il soggetto chiave di ogni produzione artistica intorno alla diaspora irlandese. Eppure, la naturalità disinibita con cui ne sono riportate le gesta e i desideri, le reazioni e i timori, obbliga il lettore a seguirne con apprensione la parabola esistenziale. È così che O’Brien problematizza nelle sue opere i personaggi e, di conseguenza, l’identità irlandese: attraverso l’esplorazione solo apparentemente superficiale delle sensibilità e dei modelli con cui si è arrivati ad articolarne il vissuto. Allo stesso metodo è sottoposta la rappresentazione degli spazi, anche sociali, a partire da quei microcosmi rurali che sono i paesini di campagna da cui l’autrice ha mosso i suoi primi passi, prima di dover fare i conti con la censura e trasferirsi a Londra. È questo stesso scenario, contro cui si agitano mitomani intrisi di retorica e ruvidi idealisti, che il Celtic Revival volle eleggere a culla dell’irlandesità, ed è proprio qui che O’Brien continua a tornare nelle sue opere, per denunciare la matrice maschile e maschilista delle faide combattute dai vari Joseph Brennan e in cui sono le donne a cadere immancabilmente vittime.

Una caduta ineluttabile, dal respiro tragico, e forse più generalizzabile che non propriamente à la Bronte, come è stato ossservato: tanto più ineluttabile in quanto la comunità intorno finisce per isolare i deboli di turno e per ostracizzare ogni forma di empatia nei loro confronti.
Esemplare in tal senso è la figura del portatore di handicap ribattezzato Catorcio. A poco serve a quel punto il collante orizzontale, atavico e anarcoide dello scetticismo verso la legge, un potere costituito che gli irlandesi soffrono senza riconoscergli l’esercizio di garante dei diritti, compreso quello di proprietà attorno a cui si sviluppa la storia. E nel rimpianto per una libertà impossibile, sembra suggerire O’Brien, neppure il tradizionale paracadute dell’ironia può lenire il dolore.

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