Da giovane studente, girovagando per la città lagunare dove era nato nel 1913, Edmondo Bacci si sorprendeva a perdersi in vagheggiamenti ispirati da quelle acque mobili e diafane. Confessava di essere attratto da tutto ciò che era impalpabile e non poteva essere altrimenti se si considera la sua prima formazione di artista: aveva imparato, con le lezioni del suo maestro Virgilio Guidi, che la luce spesso è un processo mentale e che a costruire lo spazio di un quadro non erano gli oggetti reali con la loro pur solida presenza, ma l’energia limpida dei colori. Così, inseguendoli nel loro dinamismo, Bacci opterà per farli esplodere in un pulviscolo cosmico, smaterializzando il mondo in lapilli, coaguli e macchie abbaglianti.

Bacci, Peggy, Tancredi

COME PITTORE, entrerà nelle maglie del linguaggio moderno e spazialista fin dal 1945, quando ebbe la sua prima personale nella internazionale galleria del Cavallino di Venezia. Nonostante i suoi soggetti fossero engagé socialmente – fabbriche e cantieri – Bacci introduce griglie astratte e fumose che si sovrappongono, eliminando via via ogni tono cromatico per affidarsi, alla fine di un processo quasi alchemico, alla durezza cartesiana del bianco e nero. È quello il paesaggio che sceglie di «ricordare» (il polo siderurgico di Marghera), in sintonia con le incursioni di Vedova ma in una direzione più costruttiva del segno.
Artista un po’ relegato ai margini dalla storia del Novecento, riservato per carattere e che ha lavorato isolato per gran parte della sua esistenza, Edmondo Bacci torna a risplendere al Peggy Guggenheim Collection in una mostra che presenta un’ottantina di opere, a cura di Chiara Bertola: la studiosa, sull’onda di un’antica passione (gli dedicò la tesi di laurea), recupera all’Informale una figura disorientante, componendo un ritratto a più dimensioni. Saranno i suoi dipinti di frangiamenti reiterati sui «punti di vista» ad accompagnare, ben visibili nelle pareti che fanno da sfondo, le molte fotografie in posa della mecenate Peggy. Fu lei, infatti, una delle sue prime estimatrici, tanto da scrivere di proprio pugno il testo di presentazione nel catalogo della XXIX Biennale internazionale d’arte di Venezia del 1958 (ma Bacci aveva già esposto a New York due anni prima), esaltando l’intensità e l’ebrezza espressiva del colore di ogni Avvenimento, fucina di feconde espansioni e «conquiste» oltre i confini asfittici della cornice.

NONOSTANTE QUESTO aggregarsi e disgregarsi di rossi, blu e gialli (i colori primari) cui è affidato il «tempo» – anche psichico – del dipinto, Edmondo Bacci non è artista che vive in una torre d’avorio, al di fuori della sua epoca. Guarda a Gagarin e alla promessa della luna, scopre i materiali industriali degli anni Settanta e sperimenta materiali extrapittorici (fogli bruciati, polistirolo, stoffe) che inserisce nelle sue galassie, interrompendone l’evanescenza celestiale e riconsegnando loro una fisicità paesaggistica e teatrale.
E per chi volesse approfondire quello spazio vulcanico da lui intercettato, la mostra chiude l’itinerario con una sorpresa: la tela di Giambattista Tiepolo, Il Giudizio finale (della Collezione Intesa Sanpaolo alla Fondazione Querini Stampalia) che riconduce all’«iniziazione rituale» di Bacci: le ariose prospettive in disfacimento del maestro veneziano.