«Un’occasione persa, sono molto amareggiato, ma ho lavorato con la massima buonafede». Vito Crimi conclude la decima e ultima giornata degli stati generali dell’editoria apertamente deluso dalle assenze e dalla evidente conflittualità tra i vari attori del sistema. Il sottosegretario parla nella grande aula dei gruppi alla Camera praticamente deserta, «avevamo anche prenotato per il pomeriggio, mi ero illuso», ammette al microfono.

Il gran finale di questa lunga e caotica tavola rotonda sull’editoria in crisi è dedicato ai giornalisti. Che per oltre quattro ore mostrano tutte le proprie divisioni sindacali e le proprie difficoltà editoriali e lavorative, con un dibattito in cui parla alla pari chi non ha mai avuto un contratto in vita sua e l’inviato del Corsera in pensione.

Assenti, come spiega a fianco il segretario, i vertici Fnsi e dell’ordine nazionale dei giornalisti. Per diverse ore è così andata in scena una polemica interna tra esponenti sindacali («Sembra il raduno delle opposizioni interne Fnsi», ha scritto Prima comunicazione), tra questi e i rappresentanti Inpgi.

ra i più presenti in queste giornate, c’è Lazzaro Pappagallo (segretario di Stampa romana, di orientamento opposto a quello Fnsi), che rivendica il «dovere di confrontarsi da parte del sindacato, non partecipare è stata un’idea politica sbagliata. Anche attraverso il confronto, Crimi è passato da una posizione in cui sosteneva solo il mercato al riconoscimento del ruolo di sostegno da parte dello stato».

Difficile dire, a percorso finito, cosa resterà di questi stati generali. Crimi, pur precisando via via le sue posizioni, non ha mai mostrato le carte sugli interventi che il governo ha in cantiere.

A fine lavori si è tolto molti sassolini dalle scarpe: critiche a un recente titolo di Repubblica (Forza capitana) definito «propaganda», strali sulla gestione dell’Inpgi, il dibattito parlamentare sulla governance dell’ordine dei giornalisti nella scorsa legislatura trasformato in guerra tra squali.

Afferma che «i cococo nel giornalismo (aborriti dal sindacato, ndr) esistono perché esiste l’ordine». Né risparmia frecciate a 360 gradi: «Se non interrompevamo subito il contributo pubblico nessuno avrebbe parlato di riforme».

Si rammarica a lungo anche dell’inesistente copertura giornalistica degli stati generali (e dimentica per due volte, chissà perché, proprio il manifesto, l’unico quotidiano ad averli raccontati). «Qualcuno ha boicottato o deciso di ignorare. Prendo atto, poi non vi meravigliate se il mio atteggiamento cambierà».

«A metà percorso avevo iniziato a dubitare della bontà dell’iniziativa – rivela – ma state attenti, perché poi con gli aiuti arriva anche il conto da pagare». Difende infine a spada tratta il taglio al fondo per il pluralismo, che riguarda «solo 20 testate che superano i 500mila euro di contributi sulle 160 ammesse».

Ma glissa sul fatto che dal 2022, per come è scritta la norma, tutte e 160 saranno cancellate.