Edith Scob, un’attrice e il suo fascino
Icone Il teatro, gli esordi con Franju di cui diviene la musa, attraversa il cinema d’autore. Da «Les yeux sans visage» a Bunuel, Raul Ruiz, Leos Carax
Icone Il teatro, gli esordi con Franju di cui diviene la musa, attraversa il cinema d’autore. Da «Les yeux sans visage» a Bunuel, Raul Ruiz, Leos Carax
In una delle sue ultime apparizioni sullo schermo duettava insieme a Isabelle Huppert (Le cose che verranno, 2016 di di Mia Hansen Love): madre e figlia, la prima opponeva lo charme della svagatezza alle ossessioni psicorigide della seconda sorridendo come una ragazzina mentre mostrava un meraviglioso abito nuovo. Ma come, diceva la figlia, non hai un soldo e spendi una fortuna per un vestito! Naturalmente non si poteva che amarla in modo incondizionato questa splendida madre a cui dava vita Edith Scob, l’attrice francese morta qualche giorno fa a Parigi. Longilinea, una bellezza che il tempo aveva reso ancora più irresistibile, riusciva a incarnare il fascino col suo sorriso altero e l’ambiguità che infondeva al suono delle parole. Era amata dal cinema d’autore perché nei suoi personaggi, madre, nonna o quant’altro sapeva distillare l’intelligenza e la libertà che i cineasti cercavano: cultura, fantasia, umorismo di cui permeava anche le piccole apparizioni.
NATA a Parigi nel 1937 come Edith Vladimirovna Scobeltzine (il padre era di origine russa), educazione severa di una famiglia protestante che aveva scompigliato con la scelta di fare teatro, a vent’anni Edith entra nel partito comunista, e in quello stesso periodo viene scelta da Franju per La tete contre les murs (1959) in cui interpreta il ruolo di una donna rinchiusa in manicomio. Sarà però il successivo, Les yeux sans visage (1960) a lanciarla sugli schermi: la giovanissima Edith è una ragazza sfigurata in un incidente automobilistico a cui il padre, chirurgo, e responsabile dell’accaduto vuole ricostruire il volto uccidendo altre ragazze. Scob appare per quasi tutto il film col viso coperto, sono gli occhi a parlare, terrorizzati e pieni di dolore, quegli occhi azzurri segno inconfondibile della sua figura.
ANNI dopo, Leos Carax la ritrova «mascherata» in Holy Motors (2012), dove è Celine, omaggio alla sua icona e a Franju col quale l’attrice ha girato sei film, di cui è stata l’ispiratrice fino a rimanere – secondo alcuni critici francesi – impigliata nel suo cinema. Eppure ha fatto molto altro. Il teatro intanto. Con Georges Aperghis, compositore, regista e suo marito, avevano fondato a Bagnolet nel 1976 l’Atelier di teatro e musica (ATEM), dedicato alla creazione sperimentale proseguimento del ’68. «Pensavamo di cambiare il mondo» diceva.
AL CINEMA c’erano stati gli incontri con Bunuel (La Via lattea, 1969), Pollet (L’acrobate, 1976), Ruiz. E se la Nouvelle vague non era riuscita a accordarsi a a quella sua fisicità, sono le generazioni succesive che la ritrovano, Assayas (L’heure d’eté, 2008) Nicolas Klotz (La question humaine, 2007). Diceva che il cinema dimentica presto i suoi attori ma lei non se ne preoccupava. Sapeva esserci comunque, con grazia.
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