Ha riaperto come ogni anno (grazie alla programmazione del Teatro Nazionale di Napoli) il meraviglioso luogo di spettacolo nel cuore degli scavi di Pompei. Un luogo «magico» (nonostante la scomodità dell’antica pietra) capace di far volare qualsiasi immagine e parola verso una dimensione siderale. Nonostante la forma attuale sia stata «ricreata» poche decine di anni fa (con una operazione che suscitò discussioni vivaci), la suggestione è forte, e il pubblico accorre numeroso. Ogni sera. Ad aprire la programmazione è stato un nuovo lavoro di Davide Iodice, col titolo anglolatino De Rerum Natura (there is noplanet B). L’artista è uno dei nomi ormai «storici» della ricerca teatrale partenopea, sempre coerente a se stesso, e a quello spirito «di ricerca» appunto. In questo caso si serve del poema latino di Lucrezio Caro per procedere a una sorta di «epifania» del mondo e degli eventi. Attraverso le immagini che dal proprio percorso artistico nascono (e anche raccontano) ricostruendo e citando le visioni e gli stimoli che hanno accompagnato la sua ricerca. Il rapporto con le cose e con la loro natura, vive e si arricchisce di una spettacolarità che il gruppo di attori squarcia e sgrana come evocazioni profonde da quel palcoscenico millenario.
Da quei fantasmi che sulla scena si manifestano, e si scontrano con la realtà che pure esprimono, nasce un intreccio di apparizioni, tutte fortemente evocative nei corpi degli attori che li impersonano. Le divinità greche, dalla Natura a Venere alla donna/albero, svelano la loro multipla identità: innanzitutto Greta Thunberg col suo discorso alle Nazioni unite, e poi le donne di Lesbo che raccolgono e allattano le creature rese orfane dal mare, Julia Hill anticapitalista contro le majors appesa a una sequoia. Ne nasce un rutilante stato di coscienza che nel conflitto, tra le cose e la loro natura, offre squarci profondi di coscienza e umanità.

“De rerum natura”, foto di Andrea Nocera

SPETTACOLO successivo della rassegna di Pompei, è invece Edipo re di Sofocle (in scena ancora stasera), con la regia di Andrea De Rosa, e nella traduzione di Fabrizio Sinisi. Qui i ruoli e le parole del mito greco sono più «fedeli» all’antico, anche se il regista da sempre lavora su quei classici conferendogli una nuova, vitale contemporaneità. Tra le luci mirabolanti (di Pasquale Mari) sulle scene di Daniele Spanò, e la vitalità pensosa e insieme scatenata degli interpreti (rivestiti dei costumi di Graziella Pepe), il racconto diventa una riflessione profonda e lancinante su quel nodo sempre pericoloso della lotta per il potere, e sui suoi fondamenti. La maledizione di Edipo che uccide suo padre e sposa poi sua madre, oltre a dar nome a tutta una casistica della odierna psicanalisi, scava nell’essenza stessa del potere, ls sua conquista e la sua natura, destinata in ogni caso a crollare davanti alla propria «colpevolezza». La tragedia greca diviene forza di consapevolezza rispetto alla vita collettiva, e la regia di De Rosa scansiona bene la tragicità insita in quella «organizzazione» sociale che sembra nascere sotto le migliori luci ma porta insiti dei peccati d’origine inconfessabili.

SULLA SCENA maestosa di Pompei quel nodo trova sede di giudizio: grazie anche e soprattutto agli attori che danno corpo alle due figure principali, Marco Foschi e Roberto Latini, il primo impersona Edipo il secondo Tiresia, creature entrambe forti e portatrici di verità, quella colpevole del primo e quella «legale» dell’altro. Davanti agli altri pochi personaggi, divengono entrambi carne di diritti e di maledizioni, di sogni e di valori. Lo spettacolo non è tanto «duro» ma certo rigoroso, come forse servirebbe un teatro di verità e di valori oggi, come nella antica Atene. Il rigoroso Sofocle l’ha lasciato, come messaggio in bottiglia attraverso i secoli, e riesce a trovare un suo senso pieno anche tra quegli oggetti elettronici (schermi e leggii) tra cui gli attori e i loro personaggi si muovono.