Edgar Reitz, il sogno di un’altra patria
Cinema Incontro con Edgar Reitz in occasione dell’uscita di «Die Handere Heimat», il 31 marzo e 1 aprile, ultimo capitolo della saga ambientato in Germania tra il 1842 e il 1844
Cinema Incontro con Edgar Reitz in occasione dell’uscita di «Die Handere Heimat», il 31 marzo e 1 aprile, ultimo capitolo della saga ambientato in Germania tra il 1842 e il 1844
Chissa se quando tutto è cominciato, nell’ormai lontano 1984, Edgar Reitz si aspettava che la sua vita artistica e personale si sarebbe intrecciata per sempre a quella della sua opera, ai personaggi e ai luoghi che per decenni hanno accompagnato generazioni di spettatori. La famiglia Simon della serie Heimat, il paesino di Schabbach ispirato ai suoi ricordi di ragazzo, nato nella stessa regione dello Hunsruck, da cui appena ha potuto è andato via, divenuti suo malgrado «reali». Ci racconta divertito che oggi, se gli capita di andare da quelle parti, accade sempre che qualcuno gli faccia domande su questo o quello dei protagonisti della serie. «Qui si sedeva Olm mi ha detto la proprietaria di un bar, quasi a farmi capire che per lei il personaggio esiste, è reale.». Forse era inevitabile, insito nell’idea stessa di una serialità che ha le sue radici nell’esperienza letteraria e in qualche modo precorre l’affezione seriale del pubblico televisivo. E Reitz, tra i protagonisti di quel Nuovo Cinema tedesco nato dai «figli» della Seconda guerra, con lui Kluge. Fassbinder, Herzog, Wenders si era avventurato in qualcosa di profondamente universale, un sentimento condiviso a cui fa riferimento il titolo stesso della sua opera: Heimat, patria ma prima ancora un sentimento di appartenenza, romanzo di un’esperienza, di un’affinità elettiva che la cifra immaginaria rende più «riconoscibile». Die Andere Heimat sposta però l’obiettivo, Siamo nella Germania tra il 1842 e il 1844 devastata da povertà, guerre, soprusi. I componenti della famiglia Simon protagonista sono un po’ i progenitori dei personaggi di Heimat. E l’altra «patria» a cui fa riferimento il titolo, narra soprattutto il sogno di un altrove, la potenza dell’immaginazione che costruisce nuovi mondi,la forza della visione di cui questa Altra Heimat (in sala 31 marzo e 1 aprile) è la cronaca. Incontriamo Edgar Reitz nel corso del suo tour italiano. Vestito di scuro, elegante, affabile davanti al caffè mattutino. Uno splendido ottantenne – è nato nel ’32 – senza tempo.
Come è avvenuto il suo ritorno all’ «Heimat»?
In un certo senso non ho avuto scelta. Il tema centrale in Die Andere Heimat , cioè l’emigrazione tedesca in Brasile, viene sfiorato già in Heimat 1, in uno dei racconti paralleli. Un giorno ho ricevuto una lettera da una infermiera di Porto Alegre, aveva visto un documentario su di me ed era rimasta colpita dalla mia somiglianza con un medico dell’ospedale in cui lavorava. Mi ha chiesto se c’era tra noi un rapporto di parentela, e così insieme a mio fratello abbiamo cominciato a fare delle ricerche scoprendo che moltissimi tedeschi anche della nostra regione nell’Ottocento erano emigrati in America latina. Ho cominciato a riflettere sul perché tanta gente in quel periodo aveva deciso di partire; la situazione sociale era certamente molto difficile, la grande miseria, le guerre, ma non era tanto diverso da altre volte, non almeno da giustificare un esodo di queste proporzioni. Una risposta l’ho trovata nella diffusione dell’alfabetizzazione. La gente aveva imparato a leggere e attraverso i libri, le parole immaginava altre vite, altri mondi. Di Jakob sin dalla prima scena sappiamo che è un accanito lettore. La lingua in cui si esprime non è quella quotidiana ma gli viene dai libri che legge.
La dimensione letteraria dei luoghi, dei personaggi, e in qualche modo della sua esperienza appare qui più esplicita. L’«Heimat» delle altre serie diviene «Die Andere Heimat», un’altra patria, e insieme l’altrove dei migranti, una terra di fantasia.
Jakob tiene un diario nel quale annota i suoi pensieri. È una sorta di proiezione in cui dà forma a un suo mondo diverso da quello reale, caratterizzato appunto dal linguaggio e dalle immagini che gli arrivano dai libri. Jakob è un romantico, e in senso letterale, non ci si deve infatti dimenticare che il romanticismo tedesco è la corrente letteraria che domina la Germania di quell’epoca.
«Die Andere Heimat» segue dunque questo rapporto sospeso tra realtà e immaginazione. Jakob è un sognatore, immagina altri mondi, anzi li inventa. È la stessa potenza (e scommessa) del cinema.
Alla domanda cosa è la realtà e cosa è la finzione posso solo rispondere che non sono un documentarista ma un narratore di storie, e tutti i miei film sono luoghi inventati, Schabbach non esiste come non sono «realmente» esistiti quei personaggi. In questo senso credo di essere un tardo romantico, fermamente convinto che è la fantasia a formare il mondo. C’è prima l’immaginazione, e poi la realtà. Ogni strada, ogni casa sono prima una forma, un sogno o un incubo. Solo dopo questo diventano reali. Il Brasile a cui pensano Jakob e gli altri è una terra di fantasia. Tra come la immaginano e come è in realtà c’è una distanza enorme. Ma la materia del film è l’immaginario, che qui prende forma in un Paese totalmente fantastico, che le persone inseguono cercando una fuga alla vita reale. E dopo un viaggio pieno di pericoli, che in molti non riescono a portare a termine si trovano davanti a qualcosa di completamente diverso. Come accade in ogni realtà. Alla fine, infatti, nelle loro lettere scrivono a Jakob che hanno visto solo serpenti e giungla e nessun indiano da poter salutare nella lingua che lui gli aveva insegnato.
L’Ottocento è anche il secolo delle Grandi Esposizioni, quando la fantasia dell’esotismo, conquista l’occidente alle soglie dell’industrializzazione. L’altrove di Jakob somiglia a questo sentimento.
Infatti Jakob dice che quell’immagine del Nuovo mondo era sbagliata, che non bisogna proiettarvi il dolore della miseria ma soltanto i propri sogni, liberi da ogni costrizione. E promette a se stesso che se un giorno mai andrà via porterà con sé solo la conoscenza, il suo sapere.
Però Jakob non parte. Per lei la sua è una sconfitta?
No anche se perde il suo amore, e i suoi sogni. In un lato di sé continua a essere un immigrato in un mondo immaginario, non intaccato perciò dalla prova della realtà.
L’intera saga di «Heimat» rimanda nella sua serialità alla letteratura, alla tradizione del romanzo ottocentesco e oggi anche alle serie tv.
Non posso dire molto sulle serie televisive, che sono nate trent’anni dopo il mio primo Heimat. Chissà, forse per qualcuna sono stato una fonte di ispirazione… Ho guardato piuttosto ai grandi romanzi epici del diciannovesimo ed anche del ventesimo secolo: l’opera di Goethe, L’educazione sentimentale di Flaubert, Dostoevskij, Tolstoj, La Recherche di Proust, Thomas Mann. La grande forma epica del racconto mi ha sempre influenzato, credo che sia vecchia come l’umanità, anche l’Odissea in fondo è un racconto epico.
La scelta del bianco e nero sul quale ha inserito ogni tanto dei dettagli «chiave» di colore, rappresenta per lei anche un modo di sperimentare le possibilità del digitale?
Ho pensato a lungo alle immagini da utilizzare in questo film, anche perché la vita quotidiana dei contadini non appare nell’iconografia del tempo. Il bianco e nero rimanda per me alla vita, ha una relazione con la luce che è vita, ma anche coi grandi maestri del cinema, e in questo senso rappresenta una sfida che mi appassiona. Il digitale mi rende molto felice, ha una fluidità che permette di combinare diversi elementi cosa che prima non era possibile.
La macchina da presa è molto mobile, si ha l’impressione che sia sempre sospesa.
Lo stile visivo è determinato soprattutto dal personaggio di Jakob, che non ha una forza di gravità, la sua è una natura volatile. Per questo la macchina da presa non doveva mai essere statica, ferma su un cavalletto o ancorata a terra. Abbiamo utilizzato le steady-cam e delle grosse gru, il principio del film è l’adesione al personaggio di Jakob, la macchina da presa segue la sua prospettiva.
Nel ruolo di Alexander Von Humboldt ha voluto Werner Herzog, e lei stesso peraltro appare in un piccolo cameo, il contadino a cui Herzog chiede la strada per il villaggio.
L’inserimento della figura di Alexander von Humboldt, che è un personaggio storico, nel piccolo mondo di finzione che abbiamo creato a Schabbach è uno scherzo, un momento umoristico. Quando ho dovuto pensare a chi poteva interpretarlo la scelta di un attore non mi sembrava giusta: gli attori sono una finzione, ed io avevo bisogno di qualcosa di molto reale. Ho pensato a Herzog anche per la sua personalità molto simile a quella di Humboldt, e poi abbiamo anche scoperto che c’è una somiglianza fisica tra i due. Werner ha capito subito il lato scherzoso del suo cammeo, che chiude una narrazione epica. La prima cosa che ha detto quando è arrivato sul set è stata «Ecco, così si chiude un cerchio».
Vedremo un altro «Heimat»?
Il bello del concetto di Heimat è che è talmente vasto e ramificato da comprendere ogni cosa. Se adesso girassi un film romantico, un dramma economico potrei sempre riallacciarli al concetto di Heimat, che è in me e con me da anni e probabilmente non mi lascerà mai.
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