Ecuador, Moreno usa il pugno duro contro la rivolta: tre morti
Ecuador Per i manifestanti potrebbero essere anche di più. Un centinaio i feriti, 600 gli arrestati. La mobilitazione proseguirà finché il governo non farà marcia indietro sul paquetazo
Ecuador Per i manifestanti potrebbero essere anche di più. Un centinaio i feriti, 600 gli arrestati. La mobilitazione proseguirà finché il governo non farà marcia indietro sul paquetazo
In un paese che, prima dell’avvento della Revolución Ciudadana di Rafael Correa, ha avuto sette presidenti in 10 anni, uno ogni anno e mezzo, l’attuale presidente Lenin Moreno ha tutto da temere dalla rivolta popolare esplosa in Ecuador il 3 ottobre contro il paquetazo, il pacchetto di misure anti-sociali sollecitato dal Fondo monetario internazionale che prevede, tra l’altro, l’eliminazione dei sussidi statali ai combustibili e la liberalizzazione del prezzo della benzina e del diesel.
QUANTO MORENO abbia paura delle proteste, in particolare dopo l’entrata in scena della Conaie, la potente Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador, era risultato chiaro già lunedì, con il suo annuncio del trasferimento della sede del governo a Guayaquil mentre migliaia di indigeni e contadini provenienti da zone rurali di tutta la Sierra Andina, a piedi, in bus e camion, puntavano sul palazzo presidenziale a Quito, per poi procedere a un’occupazione simbolica dell’Assemblea nazionale.
La risposta della polizia e dei militari è stata brutale: violente cariche durate fino a tarda serata, bombe lacrimogene lanciate indiscriminatamente anche nei pressi dell’ospedale in cui venivano soccorsi i feriti, come pure contro la Casa della Cultura, dove avevano trovato rifugio gruppi di indigeni, compresi anziani e bambini.
LE CIFRE parlano di almeno 3 morti – ma secondo i manifestanti potrebbero essere molti di più – di quasi un centinaio di feriti e dispersi e di più di 600 manifestanti «arrestati arbitrariamente per aver esercitato il diritto costituzionale alla resistenza», come ha denunciato il presidente della Conaie Jaime Vargas.
È così, nel più perfetto stile dei governi neoliberisti degli anni ’90, che Moreno sta provando a fermare la ribellione: prima decretando, già il 3 ottobre, lo stato di emergenza per la durata di 60 giorni, poi ridotti a 30 dalla Corte costituzionale, quindi imponendo l’8 ottobre anche il coprifuoco, dalle 8 di sera alle 5 di mattina, nelle vicinanze dei palazzi governativi e di altre aree strategiche: una misura propria di «una dittatura militare», come l’ha definita la Conaie.
E, soprattutto, ordinando una durissima repressione contro i manifestanti che, sfidando lo stato d’emergenza, hanno bloccato le strade di tutto il paese annunciando che la mobilitazione proseguirà finché il governo non farà marcia indietro rispetto all’eliminazione del sussidio ai combustibili.
UNA REPRESSIONE che ha preso a pretesto i saccheggi e gli atti vandalici commessi da settori estranei al movimento indigeno e contadino, il vero protagonista della rivolta, benché indebolito da un decennio di attacchi da parte del governo Correa, il quale non esitava a indicare «il radicalismo di sinistra, l’ecologismo e l’indigenismo infantile» come i maggiori nemici della sua «Rivoluzione Cittadina».
Proprio contro Correa, peraltro, oltre che contro il solito Nicolás Maduro – il capro espiatorio obbligato di tutti i governi di destra – ha lanciato i suoi strali l’attuale presidente, denunciando un inverosimile tentativo «di rompere l’ordine democratico». Una richiesta a evitare l’uso eccessivo della forza e a garantire il rispetto del diritto alla manifestazione pacifica è venuta anche dalle Nazioni unite, insieme a un invito al dialogo che il governo si è detto disposto a portare avanti. Senza scartare – ha detto – «misure che suppliscano all’incremento del prezzo dei trasporti nelle aree rurali, linee di credito per piccoli agricoltori, cooperative di trasporti comunitarie e politiche di riattivazione agraria».
È TUTTO DA VEDERE, però, se questo sarà sufficiente a salvargli la poltrona, considerando la caduta vertiginosa di popolarità da lui sofferta – ben prima dell’annuncio del paquetazo e ancor prima dell’accordo siglato a marzo con l’Fmi (per un prestito triennale di 4,2 miliardi di dollari) – a causa delle ripetute picconate all’eredità del predecessore Correa, a partire da una svolta di 180° in politica estera che ha risucchiato in pieno il paese nella sfera di influenza statunitense. Per non parlare delle accuse di corruzione, legate allo scandalo dei cosiddetti Ina Papers, rivolte contro di lui lo scorso marzo.
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