Ecco perché mi candido con Syriza
La critica intellettuale è una forma di prassi. Ma arriva un momento in cui, per continuare ad essere rilevante, il pensiero critico deve trasformarsi in azione politica. Non ho mai […]
La critica intellettuale è una forma di prassi. Ma arriva un momento in cui, per continuare ad essere rilevante, il pensiero critico deve trasformarsi in azione politica. Non ho mai […]
La critica intellettuale è una forma di prassi. Ma arriva un momento in cui, per continuare ad essere rilevante, il pensiero critico deve trasformarsi in azione politica. Non ho mai pensato di entrare nel gioco elettorale. Fin dall’inizio della crisi, ho coltivato la speranza di poter mantenere un dialogo aperto con gli esponenti più ragionevoli dei vari partiti politici. Purtroppo i salvataggi della troika hanno reso quel dialogo impossibile. Una volta presa la cinica decisione di risolvere la crisi scaricando le perdite del settore bancario sulle spalle dei contribuenti più deboli, tutti i politici e i commentatori che avevano deciso di sposare la causa dei memorandum hanno dimostrato di non avere alcun interesse ad intrattenere un dibattito razionale. Invece di affrontare la natura sistemica della crisi dell’euro, le élite greche ed europee hanno scelto di imporre ad un paese piccolo ma fiero l’equivalente fiscale del waterboarding, quella forma di tortura che consiste nell’immobilizzare un individuo e versagli acqua sulla faccia, simulando l’annegamento (o l’insolvenza in questo caso). Ed è così che l’Europa ha cominciato a perdere la sua integrità e la sua anima, e ad assomigliare sempre più ad una prigione per debitori. Dal punto di vista economico, il rifiuto di guardare in faccia la realtà ha finito per scatenare il panico sui mercati dei titoli sovrani, a partire dalla Grecia, il primo paese ad essere sottoposto a quella cura brutale a base di austerità e debito che è poi stata esportata al resto dell’eurozona. Come era perfettamente prevedibile, il panico ha rapidamente contagiato altri paesi, colpendo in modo particolarmente virulento l’Italia, nell’estate del 2012, costringendo la Bce ad intervenire e Draghi a pronunciare il suo famoso «whatever it takes».
Ma la crisi non è stata risolta: è stata semplicemente trasferita dai mercati sovrani all’economia reale, dove ha dato il via ad una spirale deflazionistica che oggi fa sì che paesi come la Spagna, l’Italia e la Francia siano di fatto insolventi. Dal punto di vista sociale, la logica dell’austerità e dei memorandum ha provocato una vera e propria crisi umanitaria di cui l’Europa dovrebbe vergognarsi. Il risultato è stato quello di alimentare le fiamme della misantropia, del nazionalismo, del razzismo e di tutte quelle forze oscure che stanno mettendo a repentaglio la democrazia e aprendo la strada all’autoritarismo.
Anche questo era perfettamente prevedibile. I risultati delle ultime elezioni al Parlamento europeo hanno confermato questa triste verità. Ma neanche questo è servito ha convincere l’establishment europeo della natura profondamente distruttiva e reazionaria di queste politiche, e della necessità di cambiare radicalmente rotta. Questa storia drammatica ha avuto inizio in Grecia. E dunque è giusto che il cambiamento abbia inizio da qui. Chi mi conosce sa che sono anni che mi sforzo, come tanti altri, di elaborare proposte realistiche e ragionevoli per risolvere la crisi dell’euro. Ma ormai ho capito che queste proposte non hanno alcuna speranza di essere ascoltate se non vengano portate al tavolo dell’Eurogruppo e dell’Ecofin.
Questo è il motivo per cui, quando Alexis Tsipras mi ha onorato con la proposta di candidarmi alle prossime elezioni con il suo partito, offrendomi la chance di poter giocare un ruolo nei futuri negoziati della Grecia con Berlino, Francoforte e Bruxelles, non potevo non accettare. La mia paura più grande, ora che ho accettato di buttarmi nella mischia, è che mi possa trasformare in un politico. Come antidoto a questo virus ho intenzione di scrivere la mia lettera di dimissioni e di tenerla sempre in tasca con me, così da poterla consegnare non appena sentirò che la mia determinazione starà vacillando.
Bisogna piantare le parole come chiodi / che non le prenda il vento». Questi versi del poeta Manolis Anaghnostakis (1925-2005), combattente di sinistra nella Resistenza e lungo tutto il dopoguerra, hanno aperto il discorso programmatico con cui Alexis Tsipras, il 3 gennaio, ha coronato il congresso di Syriza in vista delle imminenti elezioni, e sono stati sottolineati da un commosso applauso della platea. Non è stata un’occorrenza isolata: pochi minuti dopo nel medesimo comizio è apparsa un’altra citazione poetica, quando il leader ha denunciato la riduzione della sovranità nazionale a una «camicia vuota» – è la metafora che Giorgio Seferis adoperò per descrivere il simulacro di Elena nella sua rilettura della guerra di Troia (1955), combattuta in nome di un mero, inutile fantasma, perché la vera Elena era stata tratta in salvo altrove dagli dèi.
Pochi giorni fa a Kalamata, popolosa cittadina della Messenia depressa e rurale, Tsipras ha inanellato una serie di proverbi popolari da fare invidia a Bersani (tra i tanti, con riferimento evidente: «ladro una volta, ladro un’altra, alla terza se la vede brutta»), ma poi, dopo aver denunciato la svendita del credito agricolo, delle industrie casearie e degli zuccherifici, l’innalzamento dell’età pensionabile per i contadini, e l’insufficiente tutela delle leggendarie produzioni di olio, olive e vino, ha alluso a un verso del marxista Kostas Vàrnalis (1883-1974), dicendo che Syriza non è un «figlio della ventura» (la poesia prosegue, nelle menti dei greci che l’hanno sentita tante volte musicata, «ma figlio maturo della rabbia»). Ancor prima, a Corinto, Tsipras aveva accolto i militanti esclamando che i loro volti ormai «non si accontentano di poco cielo», come gli alberi al principio di Grecità di Ghiannis Ritsos (1954), un brano celebre della letteratura e della musica del Novecento (la melodia fu di Theodorakis), che definì l’identità storica di un popolo nei lunghi anni del sangue e della dittatura.
Questi appunti di retorica non sono una curiosità erudita, ma ci fanno capire la cultura politica che alimenta Syriza. Nel congresso del 3 gennaio scorso, dietro le spalle del quarantenne Tsipras campeggiava a caratteri cubitali la scritta «Il futuro è cominciato», ma i discorsi richiamavano i versi dei poeti nazionali, il rispetto senza idealismi per i veri eroi del passato (come l’anziano resistente Manolis Glezos), la condivisione come valore fondante, la consapevolezza di essere la vera, temuta alternativa all’Europa dei mercati. Sul fronte opposto, il primo ministro Samaràs occhieggia ad Alba Dorata quando parla di immigrazione lungo l’insanguinata frontiera dell’Ebro o sfrutta a fini di propaganda la tragedia di Parigi. E invece, da Atene, Syriza riesce a guardare ai cambiamenti possibili in Europa: Tsipras ricorda i prossimi appuntamenti elettorali in Spagna e Irlanda, con i prevedibili successi di Podemos e Sinn Fein, la possibile rivincita delle periferie umiliate.
Le parole, in tutto questo, contano molto. I primi spot televisivi di Syriza, quasi memori di quelli cileni raccontati dal film «No!», dedicano pochi secondi alla catastrofe del presente e molti di più – sotto il titolo «Arriva la speranza» – alla prospettiva di un cambiamento vero, che aggredisca la corruzione nel settore pubblico, l’evasione fiscale, la crescente ricchezza nelle mani di pochi, e anzitutto la disoccupazione. Il termine axioprèpeia, dignità, vale anzitutto a livello semantico, per demistificare gli umilianti messaggi governativi che parlano di success story in un Paese prostrato, e per ricordare che in caso di nuova vittoria di Samaras le parole d’ordine saranno quelle scoperte un mese fa in una mail riservata del ministro dell’Economia alla trojka, arrivata alla stampa per errore: ulteriori tagli a stipendi e pensioni, ulteriori aumenti di tasse e tariffe di servizi essenziali (acqua, luce, gas), ulteriori vincoli da memorandum.
D’altronde, lo spettro del day after è duplice: da un lato la tenuta del partito, che è, come recita l’acronimo, un Sy(naspismòs) della sinistra radicale, dunque un’alleanza di forze eterogenee chiamate ora più che mai a serrare i ranghi. Per il tattico antico Eliano, si ha tecnicamente synaspismòs in battaglia quando la falange «compattate le fila non si inclina né a destra né a sinistra». Dall’altro, lo spettro di un successo senza maggioranza parlamentare, di uno stallo nella formazione del governo: uno stallo come quello di un altro 26 gennaio, quando (era il 1936) all’indomani delle elezioni il tentativo da parte dei liberali di uscire dalla crisi politica ed economica coinvolgendo il Partito comunista (prima e ultima volta nella storia greca) portò in pochi mesi il re a consegnare il paese nelle mani del dittatore Metaxas. Ecco, la posta in palio, oggi, è la liberazione da quella storia che pare una condanna, dalle sofferenze e dalle torture, dalle frustrazioni e dai sogni spezzati di generazioni di combattenti per la libertà lungo tutto il secolo breve.
Per questo, per tener fede a un’identità di sinistra che è sentitamente greca e profondamente europea, nel programma di Tsipras si reintroduce il salario minimo (751 euro), si ritorna al contratto collettivo di lavoro, si cancella il licenziamento di gruppo, si bloccano le privatizzazioni, si stanziano fondi per copiosi investimenti statali, sottratti al sistema clientelare fin qui imperante. Una politica che sostiene innanzi tutto gli «incapienti», con la lotta alla moderna schiavitù per debiti, che ormai minaccia le prime case di tantissimi greci: si tratta della «Nea seisàchtheia», che riprende nel nome la misura di alleggerimento del peso del debito adottata da Solone nell’Atene del VI sec. a.C. per sanare un disagio sociale ormai incontrollabile e violento.
Ai partiti di governo di Atene, che accusano Tsipras di un salto nel buio, risponderebbe sempre Anaghnostakis, nella medesima poesia da cui sono tratti i versi citati in apertura (Poetica, 1970): «Dimmi tu che cosa non hai tradito / Tu e i tuoi simili, per anni e anni, / Avete svenduto uno per uno i vostri beni / Sui mercati internazionali e nei bazar popolari / E siete rimasti senza occhi per vedere, senza orecchie / Per ascoltare, le bocche sigillate, senza parlare / In nome di quali sacri valori umani ci accusate?»
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