Ebraismo, l’identità nel cambiamento
Metamorfosi / 10 Colloquio con Benedetto Carucci Viterbi, intellettuale e insegnante. Una ricerca intorno al diventare «altro da sé» partendo dalle diverse interpretazioni delle fonti tradizionali
Metamorfosi / 10 Colloquio con Benedetto Carucci Viterbi, intellettuale e insegnante. Una ricerca intorno al diventare «altro da sé» partendo dalle diverse interpretazioni delle fonti tradizionali
Metamorfica e fluida l’identità ebraica va declinata nel tempo e nella geografia. E nelle fasi della vita perché è una componente tutt’altro che immobile delle scelte dei singoli e dei gruppi che si autodefiniscono ebrei. L’immagine dell’ebreo attraversa la storia, la letteratura e le arti come rivoluzionario o come capitalista ma, al di là di ciò che ne raccontano gli altri, la tradizione ebraica stessa si interroga sulle possibilità di trasformazione: come fare a diventare altro da sé all’interno di una cultura partendo dalle interpretazioni delle fonti tradizionali? Cosa dice alla modernità la possibilità di cambiamento descritta dalla tradizione ebraica?
ALL’INTERNO DELL’EBRAISMO esiste un’ipotesi in cui il nome è l’identità stessa della cosa e al suo mutamento corrisponde una metamorfosi che accorda alla persona di trasformare la propria essenza e il proprio destino. Una trasformazione che non solo modifica l’ordine vigente ma che agisce sull’avvenire. Si tratta di una tradizione culturale autorevole e immaginifica in cui un racconto sostiene che il mondo poggi sul respiro dei bambini che studiano e un percorso dentro le fonti declina la relazione tra la vita e la sua possibilità di cambiamento proprio con una metamorfosi che avviene, appunto, grazie al cambiamento del nome. Una linea interpretativa che si dipana a partire da un’immagine potente: «Dio crea il mondo fondamentalmente nominando e quindi è come se ci fosse una specie di cuore verbale linguistico intorno al quale si rapprende la materia –spiega Rav Benedetto Carucci Viterbi, intellettuale e insegnante – e un’interpretazione ulteriore è che se non ci fosse l’eco quotidiana della parola creatrice la realtà ritornerebbe al nulla: senza questa la realtà non ci sarebbe. Si tratta di un fondamento importante per sostenere che il nome, che non è solamente il nome proprio ma è il nome di ogni cosa, di ogni essere, è la sostanza stessa della realtà».
L’ATTO DEL NOMINARE non riguarda quindi l’aspetto esteriore ma l’essenza stessa di ciò che è nominato: «Ogni cambiamento di destino, di futuro passa per quello del nome. Il Talmud dice chiaramente che per il cambiamento sono necessarie tre condizioni: mutare il nome, il posto, cambiare il comportamento».
Benedetto Carucci Viterbi è preside delle scuole superiori della Comunità ebraica di Roma, insegna esegesi biblica, letteratura rabbinica e mistica ebraica. È una della voci ebraiche dalla trasmissione radiofonica Uomini e profeti. È lui a proporre questo percorso tra le fonti affascinato all’idea di riflettere sulla metamorfosi, una mutazione di identità e di sorte che riguarda molti dei patriarchi e delle matriarche dell’ebraismo ai quali la relazione con il divino consente una trasformazione radicale: Abramo – capostipite e iniziatore del monoteismo ebraico, mutazione, con tutta evidenza, di grande autorità all’interno della vicenda biblica – è esemplificativo, l’uomo che parte da Ur dei Caldei verso Canaan e, ad un certo punto, cambia nome. «Fin quando si chiama Avram non può avere figli, non può avere futuro, che gli si apre solo con il cambiamento del nome in Avraham. Anche per Sara, che prima si chiama Sarai – prosegue Carucci Viterbi . questo è assolutamente chiaro, i commentatori lo dicono: finché questo è il tuo nome la tua strada è questa, per cambiare il percorso devi cambiare nome e, anche in questo caso, glielo cambia Dio».
LA GENEALOGIA del cambiamento di nome e di destino prosegue con la loro discendenza: «Nel caso di Giacobbe, in ebraico Iacov, la vicenda è più complessa. Ad un certo momento del combattimento con Iacov l’angelo vuole andar via ma lui lo trattiene: ’Non ti lascerò andar via fin quando non mi avrai benedetto’ e l’angelo gli domanda ’Come ti chiami?’, ’Iacov’ risponde lui e l’angelo replica: ’Da questo momento non sei più Iacov ma sarai Israel perché hai combattuto con un essere angelico inviato dal Signore e ce l’hai fatta’». Al contrario dei suoi progenitori, il cui cambiamento di nome e di destino è irrevocabile, Iacov nei testi della tradizione conserva entrambi i nomi: «Non sembrerebbe una metamorfosi completa, nella storia successiva il testo oscilla tra Iacov e Israel: come se mantenesse dentro la sua essenza una qualche componente dell’identità precedente». Due nomi che permangono e le cui etimologie sono in qualche modo antitetiche: la radice di Iacov parrebbe legata all’idea della tortuosità, del non essere diretto, mentre quella di Israel invece, se la si punteggia in maniera leggermente diversa, significa esattamente il contrario, cioè essere retti. Nel suo caso il cambiamento di nome è una trasformazione di cui mantiene entrambi i destini.
Nel Pentateuco anche Dio si dà un nome: nel dialogo con Mosè, il secondo gli domanda: «Mi mandi dal popolo ebraico ma quando mi domanderanno chi ti manda che nome devo dire?». E Dio risponde «Sarò quello che sarò». Così il nome che gli ebrei non pronunciano mai «non è altro – spiega il rabbino Carucci Viterbi – che una specie di agglomerato verbale dei tre tempi del verbo essere, come se fosse passato, presente e futuro. Però è interessante il fatto che da una parte Dio si autonomina in una maniera in cui c’è un rapporto con il tempo, con il divenire, con l’essere, dall’altra però noi abbiamo la proibizione di dirne il nome come se pronunciarlo implicasse avvicinarsi alla identità profonda di Dio». Eppure, anche questa volta, l’interpretazione ebraica consente all’idea del nome, anche quando indicibile, di rimanere centrale: «Il tetragramma non lo pronunciamo mai ma in una situazione liturgica lo sostituiamo con ‘Adonai’ che vuol dire ‘Mio Signore’, mentre in occasioni non liturgiche lo chiamiamo ‘Ashem’ che vuol dire ‘Il Nome’: anche in questo caso il nome è il portatore dell’essenza dell’identità».
Confrontandosi sui testi parrebbe che la trasformazione è eterodiretta: «In realtà – continua – la storia delle metamorfosi classiche non è mai un processo endogeno, è sempre un processo esogeno. Giove, Zeus o qualche altra divinità di riferimento ti trasforma in qualche cosa e l’idea mi sembra molto simile. Nei casi in cui è evidente il cambiamento del nome, in cui Dio interviene per cambiarlo, mi sembra affermi che il futuro di una persona è in qualche modo incardinato nel suo nome ma è anche vero che questo incardinamento non è così rigido perché se è possibile cambiarlo attraverso il cambiamento del nome anche il futuro è più elastico di quanto si potrebbe immaginare».
NONOSTANTE L’ATTENZIONE al cambiamento di denominazione l’ebraismo ortodosso, al contrario di quello riformato, non riconosce il cambiamento di genere al quale il cambiamento di nome consegue. E ancora: nelle ristrette mura del ghetto la piccola collettività chiusa al suo interno faceva largo uso di soprannomi che arrivavano a comprendere intere generazioni ma i tentativi di opporsi al proprio appellativo si rivelavano spesso impossibili: il peso del soprannome schiacciava e irrideva chi voleva liberarsene. D’altro canto all’interno della tradizione codificata l’attenzione al nome resta importante: non si pronuncia il nome del nascituro fino all’avvenuta circoncisione e anche il «gher», il convertito, lo cambia con l’ingresso nella collettività ebraica: è infatti una sorta di rinascita che ridefinisce la genealogia passata e i destini futuri.
Resta, negli anfratti della liturgia, la consapevolezza e l’auspicio che il cambiamento del nome si accompagni ad un cambiamento di destino: esiste infatti un rituale specifico: «Si chiama shinnuy ha-shem – conclude Carucci Viterbi – quando una persona sta molto male gli si aggiunge un nome o gli viene proprio cambiato. È un’usanza molto diffusa, si aggiunge un nome che sia in qualche modo portatore di vita o di guarigione». Un nome che incardina un destino è anche definito dal suo contrario: l’oblio del nome di un malvagio, una potenza malefica che dal passato rischia di dispiegare la sua ombra sul futuro.
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SCHEDA. Mosè scende dal monte con il volto «velato»
La riflessione sulla metamorfosi nell’ebraismo lambisce quella sulla metempsicosi e sulla risurrezione: si tratta di una materia scivolosa sulla quale l’interpretazione delle fonti ebraiche e cristiane ha ingaggiato secoli di discussioni e scontri. Scegliere il versante del cambiamento di nome significa riflettere sul futuro e sul contributo specifico dell’ebraismo all’autodeterminazione del proprio destino. Simile ma non sovrapponibile è il tema del «mascheramento» a cui ricorrono alcuni dei protagonisti della tradizione ebraica: Mosè scende dal monte con il volto che risplende al punto tale da doversi velare; Giacobbe «si maschera» dal fratello Esaù; Ester si chiama come una divinità persiana e nasconde il fatto di essere ebrea tanto da essere definita «la nascosta».
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