E Zezi, come sentirsi umani
Musica Parla Angelo De Falco, anima storica del gruppo di Pomigliano d’Arco. Cinquant’anni in difesa della cultura popolare: «Siamo in un paese in cui politicamente c’è poco da stare allegri»
Musica Parla Angelo De Falco, anima storica del gruppo di Pomigliano d’Arco. Cinquant’anni in difesa della cultura popolare: «Siamo in un paese in cui politicamente c’è poco da stare allegri»
È tutta in una cartolina la complessità di una storia artistica, culturale e politica in senso pieno, che si fa beffe di chi vorrebbe la tradizione monopolio di luoghi e di tempi immutabili: «Un nostro compagno in viaggio a Baghdad ha trovato da un tabaccaio questa fotografia raffigurante una quindicina di iracheni travestiti da donna con un Pulcinella al centro, tale e quale al nostro. Siamo rimasti sconvolti e divertiti allo stesso tempo, pensando a quanti paesini rivendicano la paternità di questa maschera! Recentemente abbiamo chiesto informazioni al centro curdo Ararat di Roma con l’idea di riscrivere la Cantata di Zeza e dedicarla ai nostri antenati dalla Mesopotamia».
Angelo De Falco, per tutti ‘O Professore, di questa storia mutevole è voce narrante sin dal 1974. Le sue parole tracciano le coordinate di un’esperienza senza precedenti, un sisma generato dalla collisione tra il territorio rurale della sua Pomigliano d’Arco e l’urbanità imposta dall’industria (leggasi Alfasud). Da contadina, la cultura popolare diventa proletaria, e il progetto dal basso del Gruppo Operaio E Zezi si pone l’obiettivo di affrancarla dal controllo degli intellettuali e del capitale. Una missione che, proprio come la tradizione, è soggetta al continuo mutamento dell’ultimo mezzo secolo.
«OGGI ABBIAMO sotto gli occhi le resistenze in Puglia, ma dal Garigliano in su la cultura popolare ha subito uno schiacciamento maggiore. Lo diceva già Pasolini: quando la terra lascia spazio al cemento la cultura contadina tende inevitabilmente a scomparire. Certo, ci sono resistenze anche al centronord, pensa ai maggi fiorentini, ma sono a forte rischio di essere travolte dai cambiamenti repentini del sociale». Anche perché, osserva, le istituzioni sembrano programmaticamente interessate a oscurarne le espressioni: «Anni fa abbiamo provato a chiedere al Quirinale di dare visibilità a queste manifestazioni: se passo per Maiori, sulla costiera amalfitana, dovrei essere messo a conoscenza che tutto il paese è coinvolto in questa festa della Madonna Avvocata, che pur partendo da una radice estremamente religiosa vede questi “diavoli” cantare, suonare e dare gioia alla comunità. Lo stesso dicasi per Bellizzi Irpino, Montemarano e tante altre realtà».
LO STORICO leader degli Zezi è consapevole che nel contesto attuale la visibilità è prerequisito essenziale per le conquiste civili. Spariti gli spazi fisici dei loro esordi, come i teatri del dopolavoro e le case del popolo, si estinguono anche quelli materiali e mentali: un dopolavoro effimero, che non consente proposte culturali dal basso. Le quali, nel loro caso, si legavano sin dagli inizi a una ricerca sul campo degna della scuola etnomusicologica del tempo: «Abbiamo sempre avuto grandissima stima per Giovanna Marini, Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli. Siamo stati sempre vicini in termini di prospettive, di interesse verso gli ultimi. Loro ci hanno “coccolati”, perché venivamo da queste lande desolate… oggi la chiamano Terra dei Fuochi, ma all’epoca erano solo campagne in via di trasformazione».
Un interesse, quello verso la cultura popolare, di cui Angelo intravedeva già derive commerciali sotto l’egida della “world music”: un’altra industria intenzionata a controllare le pratiche culturali. «Quando Peter Gabriel si interessò a noi, nel 1998-’99, successe un casino. Pensavamo inizialmente che la Real World avrebbe potuto aiutarci a organizzare qualcosa di grande a favore degli abitanti delle nostre regioni. Niente di tutto questo. Il problema non era Gabriel ma gli intermediari, che troppo spesso travisano l’oggetto del loro interesse e tendono a modificarlo: la repressione dell’industria è presente in tutti i settori del fare umano».
TUTTAVIA, neppure «l’incidente con la Real World», come lo chiama lui, ha fermato l’impulso di quello che non è soltanto un gruppo ma un vero e proprio laboratorio, «una macchia che continua a espandersi» dice, ricordando che sono circa cinquecento i «nomi, cognomi e contronomi» che vi hanno partecipato contribuendo a coniugare funzione politica e ricreativa. Tra questi, impossibile non ricordare Marcello Colasurdo, volto, corpo e voce degli Zezi per diciotto anni — nonché personaggio simbolo dell’intera scena folk — scomparso lo scorso luglio.
Oggi questa salubre «macchia» si espande tornando alla produzione discografica: il brano Vocca d’oro anticipa il nuovo album previsto per la fine dell’anno in occasione del loro cinquantesimo anniversario, «13 novembre, giorno di San Diego». I riferimenti agli ultimi — “fravecature, pezzienti arraggiate” — non sono affatto in contraddizione con «lo sfizio di una tammurriata più leggera rispetto alle nostre storiche. Oggi la gente è particolarmente oppressa, non ci sembrava il momento di un’altra Flobert [brano dedicato all’esplosione dell’omonima fabbrica di fuochi d’artificio a Sant’Anastasia, ndr l’Osservatorio di Bologna ormai è costretto ogni giorno ad aggiornare le cifre dei morti sul lavoro, e torneremo a Sant’Anastasia con il nostro teatro popolare, per dire la nostra su una situazione che sta diventando insostenibile».
Consapevoli del mutamento sociale avvenuto durante mezzo secolo di attività sul campo, E Zezi sanno che anche il linguaggio, come la tradizione, è soggetto al cambiamento. In un paese in cui «politicamente e culturalmente c’è poco da stare allegri», ‘O Professore e i suoi compagni continuano a portare avanti un impegno politico e comunicativo che, oltre alla cultura, vuole restituire alle classi popolari l’allegria stessa. «Il nostro scopo è ancora il medesimo: fare propaganda al sentire umano».
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