«È un po’ la fine di tutto»: un «making of» lungo quarantotto anni
Cinema La maledizione di «The Other Side of the Wind» e la squadra che l'ha portato a termine
Cinema La maledizione di «The Other Side of the Wind» e la squadra che l'ha portato a termine
«Quel po’ che ne ho visto… è fra le cose migliori di Welles». Così scriveva di The Other Side of the Wind – nell’anno della morte di Orson Welles, il 1985 – l’amico regista, ammiratore e biografo – autore di Io, Orson Welles – Peter Bogdanovich, che al film ha partecipato in veste di attore e in parte montatore postumo del materiale girato dal regista di Quarto potere. La lotta per produrre e poi far vedere la luce a The Other Side of the Wind, continuata ben oltre la morte del suo autore, è fra le più avventurose, e sfortunate, che il mondo del cinema abbia mai conosciuto: a cavallo tra due secoli incrocia la rivoluzione iraniana, i più prosaici scontri fra eredi testamentari di Welles, produttori truffaldini che scappano con il maltolto, case di distribuzione che si avvicendano negli anni per terminare la grande opera incompiuta – i cui negativi giacevano sin dagli anni ’70 in una cassaforte di Parigi.
Bogdanovich, a cui Welles aveva affidato il suo film, probabilmente colto dall’intuizione che non avrebbe avuto il tempo di mettere la parola fine su The Other Side of the Wind – ha sempre partecipato alla lunga lotta per portarlo a termine, ed è fra i curatori della versione definitiva in uscita oggi su Netflix e finalmente realizzata proprio grazie all’intervento – e all’ingente finanziamento – del gigante dello streaming.
INSIEME al regista dell’Ultimo spettacolo ci hanno lavorato Frank Marshall – il grande produttore hollywoodiano che sul set di The Other Side of the Wind aveva il ruolo di production accountant – il montatore Bob Murawski, il produttore Filip Jan Rymsza e la negative cutter Mo Henry,che in un bel reportage di Alex Ross sul «New Yorker» ha raccontato che, nonostante la sua lunga esperienza in questo campo (il primo film a cui ha lavorato è Lo squalo) l’opera incompiuta di Welles è diversa da tutto ciò con cui si era confrontata in precedenza.
«Utilizza una grande varietà di supporti: 35 e 16 mm, Super8, alle volte la pellicola è a colori, altre in bianco e nero. L’idea è che tutto ciò che vediamo sullo schermo siano le immagini del film di Hannaford (il protagonista di The Other Side of the Wind interpretato da John Huston, ndr) o quelle girate dai giornalisti che lo seguono dappertutto». Su Netflix il film di Welles è accompagnato da un documentario su di lui di Morgan Neville, They Will Love me When I’m Dead, intitolato con una citazione di Io, Orson Welles, una frase che il regista aveva «borbottato» di fronte a al suo amico e biografo: «Oh, quanto mi ameranno da morto».
«NON È SOLO l’ultimo film di Orson, ma è un po’ la fine di tutto», ha detto Bogdanovich alla presentazione di The Other Side of the Wind al Festival di Telluride. «È un film molto triste – Orson ne ha fatti tanti ma la sua arte era l’antidoto. È come se avesse voluto dirci che l’arte è l’unica cosa che può salvarci dalla fine».
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