È tra pietre e fango che si alza forte il canto della vita
A teatro «La cupa, fabula di un omo che divinne un albero», scritto diretto e interpretato da Mimmo Borrelli. Un’opera grandiosa popolata da anime dannate, persone e bestie, dai tratti teneri e crudeli
A teatro «La cupa, fabula di un omo che divinne un albero», scritto diretto e interpretato da Mimmo Borrelli. Un’opera grandiosa popolata da anime dannate, persone e bestie, dai tratti teneri e crudeli
Un fiume in piena, un flusso inarrestabile di parole (anzi, versi), corpi ed emozioni. Un torrente a tratti pericoloso, sempre misterico, in certi attimi sublime. È uno spettacolo, non proprio tradizionale, ma avvolgente, coinvolgente, e anche perfidamente mariuolo quando ti svela quello che non vorresti sentire. E invece ti allaga di perversa fisiologia di orifizi e pensieri, di ascendenze e rovinose discendenze, di ritualità antiche di grande baldanza, senza assoluta speranza. Visioni cieche dall’apparenza lineare, stregate da un cielo rovesciato agli inferi e da una lingua meravigliosa, polposa e traditrice. Una cosmogonia alternativa che suona condanna, di corpi manomessi eppure tentatori.
Di uno spettacolo si tratta, elevato a ennesima potenza, che dopo tanti anni permette a Mimmo Borrelli di esprimersi fino in fondo. Non perché non fosse avvenuto prima, in ognuno dei suoi numerosi e begli spettacoli (dove ognuno può aver preferito N’Zuliarchìa a La madre, o viceversa). Ma qui, lungo le tre ore (divise in due serate) c’è davvero di che trattenere il respiro, e tuffarsi in una poesia senza ritorno, tra apparizioni di buone intenzioni e di orrifica forma, ritmate da batter della dura pietra grigia (cupa, appunto) che gli imperatori romani scavarono per farne i loro monumenti, e che scandisce qui i tempi di quelle vite, assieme ad ancestrali canti di chiesa e melodie nate sulle parole.
La cupa, fabula di un omo che divinne un albero è il titolo (fino a domani la prima parte, la settimana successiva la seconda fino al 6 maggio, al teatro San Ferdinando), ma il suo racconto è quasi impossibile. È un flusso primordiale di famiglie e peccati, in mezzo al pubblico disposto su tre lati del teatro ridisegnato.
Sul palcoscenico solo una enorme sfera, su cui aleggia a un tratto un mostro alato. La presenza di quelle creature è molto ravvicinata, scuri di pece e carbone, di tatuaggi e pietruzze che ne trasformano la pelle nella superficie di pianeti sconosciuti; grandi mantelli di ruvido panno, o particolari zoomorfi e camminata segnata. L’effetto di quella incertezza sovrana ribolle come la solfatara dai cui gas sembra provenire il racconto: è la terra di Mimmo Borrelli attorno a Bacoli, dietro capo Miseno. Valori e sentimenti bullicano nella scena teatrale senza sosta e senza limite, abbattendo valori e sicurezze, moralità e buonsenso. Tutto ribolle e sembra rifrangersi su quella pietra scura dall’inconfondibile suono, dove sono le vite di ognuno i battienti di quella sacra e dissacrante rappresentazione.
Il filo narrativo è molto solido, anche se l’artista porta in scena solo una parte (circa un quinto) della composizione originaria cui ha lavorato per molto tempo. Tutto ruota attorno alla figura di un padre, destinato a trasformarsi in vegetale, cui morì la moglie di dolore, per la perdita dei due figli maschi. Rimasto con la figlia femmina senza vista, l’uomo la cresce con cura amorevole, ma per non farla soffrire si finge suo fratello. Negli accadimenti attorno a loro, tra ritorni e fantasmi, parenti e conoscenti, il tempo sospeso e insieme eterno si snoda per venti «stazioni» che costituiscono il campionario più vasto di umanità e degrado, tra valori reietti e aspirazioni frustrate. Chi non comprende affatto la lingua napoletana, perderà una parte di quelle variazioni ribollenti, dove ogni tanto si affaccia un barlume classico o un ritmo familiare. Ma sono soprattutto i corpi a parlare: si muovono come danzassero, e in un lampo esprimono e proiettano di quale fuoco ardono. Dicono anzi più di quanto non esprimano a parole: la conflittualità di quella condizione paterna continuamente esplode e si fa centrale nelle sue ammissioni di inadeguatezza. È una sorta di summa rovesciata di valori e malattia, di grandezze e miseria, di forza bruta e rovello interiore.
È un vastissimo campo che viene scoperchiato, nel quale ogni spettatore può immergersi o ritrarsi, aderire o fuggire, condotto dal peso specifico delle parole o ammaliato dal canto che a tratti si fa meraviglioso nel suo dolore (tra gli altri, c’è una giovane voce femminile strepitosa). E tra i suoni di pietra e di ottoni, forse è proprio l’opera musicale la forma in cui precariamente inserire La cupa. Un’opera grandiosa e «imbarazzante», che sbaraglia ogni paragone. Che certo non può finire in queste settimane di repliche, perché un pubblico sempre più vasto si possa affacciare a un’idea così forte e compiuta di «teatro». E va dato atto a quello nazionale di Napoli di aver compiuto una scelta coraggiosa e tanto più necessaria nel produrla. E ai tredici interpreti in scena (con i musicisti, tecnici, scenografi, costumisti e illuminatori) di essersi spesi totalmente per realizzarla.
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