E sulla terra faremo libertà: pagine sulla Resistenza romana
Perché si racconta una storia? Forse per poterla capire. La scrittura narrativa parte spesso da quel bisogno lì. Comprendere cosa è successo mentre lo si racconta. Comprenderlo grazie al racconto. Ma ci sono storie e storie. Alcune sono talmente esemplari, feroci, stupefacenti e memorabili che non le si capirà mai fino in fondo, né le si vorrà dimenticare. Allora il racconto dovrà essere trasmesso di voce in voce, di scrittura in scrittura, di generazione in generazione.
La lotta per liberare Roma dall’occupazione nazifascista, combattuta dal 9 settembre 1943 al 4 giugno 1944, appartiene a una di quelle storie. Continuiamo a raccontarla non per liturgia, ma perché ancora ci sbalordisce e interroga. Seppure la Resistenza non sia mai stata patrimonio condiviso da tutti gli italiani. E forse lo facciamo proprio per questo motivo.
I primi a metterla nero su bianco sono stati coloro che l’hanno vissuta. Le ragazze e i ragazzi della Resistenza romana. E i cittadini che, pur non partecipando direttamente alla lotta, testimoniarono quei mesi. Diari, lettere, memoriali, romanzi. Uno dei raccolti di storie più abbondanti del Novecento italiano. Un atto di narrazione collettiva che ha fruttato anche gemme letterarie. Questo flusso, soprattutto nel campo comunista, ha però vissuto delle intermittenze editoriali alle quali accennerò più avanti. Le memorie dei protagonisti hanno poi ceduto il testimone a una letteratura di nuove generazioni (e a teatro e cinema, ma non sono tema di questo articolo; quanto alla storiografia, mi limito a segnalare due tra gli ultimi titoli: Gabriele Ranzato, La liberazione di Roma, Laterza 2019; e Davide Conti, Roma in armi, Carocci 2024). La nostra letteratura e le nostre parole che, per quanto libresche, non all’altezza degli originali, si impegnano a tenere viva quella storia.
Torniamo ai protagonisti. Tutti loro, dopo il 4 giugno del 1944, sono finalmente liberi. Non avevano mai goduto di una libertà simile, se non nella illusoria parentesi tra il 25 luglio e l’8 settembre. La libertà – e non ancora la democrazia, «che non si sapeva o capiva bene cosa fosse» – è la vera «protagonista» di queste giornate romane e lo sarà dei prossimi mesi. «E quella libertà era soprattutto dentro di noi, qualunque cosa dicessimo, anche le cose più contraddittorie e strampalate», ricorderà lo storico Luciano Cafagna in un convegno Irsifar del 2005.
Ma i partigiani, soprattutto quelli che hanno combattuto nei Gap comunisti, indiscutibili protagonisti della Resistenza armata romana, sono divisi tra felicità e rammarico. Perché Roma, a differenza di altre città italiane, non riesce a liberarsi da sola. Sono le truppe angloamericane a mettere in fuga i nazisti. Questo sentimento spezzato si evince da molte memorie e ad esempio da alcune righe che riprendo dall’Autobiografia di Maria Teresa Regard (F.Angeli 2010): «Passammo tutti insieme la notte, ascoltando con gioia il rumore dei cingoli dei carri armati alleati che penetravano nel centro della città (…). Nonostante ci sentissimo finalmente liberi, ci scottava la mancata insurrezione e lo stato di impotenza in cui avevamo passato quella giornata».
Sono molte le cause della mancata auto-liberazione, ed è impossibile esaminarle qui. A noi interessa ricordare che i resistenti romani sono arrivati stremati al giugno del ‘44. Ragazze e ragazzi spesso giovanissimi o trentenni, che hanno scoperto il proprio antifascismo nell’esperienza della lotta armata e della guerra civile, in una guerriglia urbana drammatica, coraggiosa, solitaria. E l’hanno fatto per mesi, dall’autunno del ‘43 fino a ora, in azioni pretese ed elogiate dagli Alleati, sfiancando e cogliendo di sorpresa i nazifascisti. Hanno insomma interpretato lo spirito resistenziale con «coraggio e avventatezza» più che con «timore e accortezza», per riprendere un ragionamento di Chiara Colombini dalla sua Storia passionale della guerra partigiana (Laterza 2023). Hanno vissuto storie d’amore e una inedita uguaglianza tra donne e uomini. Hanno subìto torture a via Tasso e nei covi della Banda Koch. Hanno visto morire troppi compagni. A partire dal gennaio-febbraio del ‘44, con l’organizzazione dell’intelligence nazifascista coordinata da Kappler e dal questore Caruso, hanno scoperto il volto più crudele del nemico, e dopo la micidiale azione-reazione di marzo (via Rasella, Fosse Ardeatine) si sono assai indeboliti.
Sembra quasi un miracolo che molti di loro siano ancora vivi. E adesso cosa ne faranno di questa vita e libertà? Avranno tanto da raccontare. Avranno scritto diari e immaginato romanzi. Avranno intrattenuto carteggi. Sono spesso di estrazione intellettuale, coltivano ambizioni letterarie.
A Roma intanto le parole scritte germogliano, formicolano. È un’esplosione di parole. Nascono decine di riviste e giornali. Alba de Céspedes fonda Mercurio. Spuntano editori nuovi disposti a pagare anticipi per memorie di guerra e romanzi. Se qualcuno ha delle carte nel cassetto, è il momento di tirarle fuori. Già nel 1945 escono tre libri imprescindibili. Giacomo Debenedetti ha appena pubblicato a dicembre 1944, sulle colonne di Mercurio, il suo 16 ottobre 1943, e adesso il racconto del rastrellamento nazista nel Ghetto matura in un libro. Paolo Monelli pubblica Roma 1943, resoconto fluente, accurato, mirabilmente scritto degli ultimi due anni. Carlo Trabucco dà alle stampe La prigionia di Roma. Un prezioso diario dei 268 giorni dell’occupazione tedesca (così reca in sottotitolo) che avrà meno fortuna delle altre due opere, ma è altrettanto importante per la ricostruzione di fatti grandi e piccoli, umori e sentimenti, dati ambientali. I titoli sono del resto moltissimi, la bibliografia è sterminata; per approfondire si vedano: Anpi-Irsifar, Documenti della Resistenza a Roma e nel Lazio (Biblink 2001); e Ornella Stellavato, Roma tra occupazione e Liberazione nelle memorie e nei diari dell’Archivio diaristico nazionale, in Roma durante l’occupazione nazifascista: percorsi di ricerca (F.Angeli 2009).
Se si escludono i testi di scrittori già affermati (ad esempio Vasco Pratolini, il cui Il mio cuore a Ponte Milvio uscirà nel 1954), dal campo comunista uno dei primi a provarci è Fabrizio Onofri. Ma solo nel 1948, anno in cui Einaudi dà alle stampe un suo romanzo dal titolo Manoscritto, firmato con lo pseudonimo di Sebastiano Carpi. Non è un libro memorabile, ma incide per altri motivi. Onofri è un intellettuale e funzionario comunista, ed è stato uno dei dirigenti dei Gap a Roma. Il suo romanzo è tutto fuorché esemplare sul piano politico. È un testo esistenziale, esprime l’inadeguatezza del militante divenuto comunista senza appartenere alla classe operaia («in quel tempo combattevo tedeschi e fascisti, e combattevo dentro di me l’uomo che ero, l’intellettuale che ero»). Ed è pieno di donne e sesso. Daniela, Maura, Valeria, Mirna… («in principio Maura fu labbra che chiedevano, labbra pronte ad aggredire»). Come ha magistralmente ricostruito Alessandro Casellato nella sua Introduzione a Franco e Piero Calamandrei, Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (Laterza 2008), il libro fa infuriare i dirigenti Pci. Onofri – che dopo la crisi del 1956 abbandonerà drammaticamente il partito – lo ritratta e nel 1949 dà alle stampe, senza pseudonimi, l’Esame di coscienza di un comunista, pamphlet che offre un pentimento completo, nonché l’impegno dell’autore a non «perdere più tempo» con la letteratura. Il caso Onofri manda un messaggio forte e chiaro: il tempo della libertà e delle velleità artistiche è finito.
Allora, come la raccontiamo questa Resistenza? E la possiamo raccontare? Anche se siamo in piena Guerra fredda e l’euforia del ‘44 è alle spalle? Mentre il nuovo ordine democristiano ne scredita la memoria e i vecchi fascisti restano al potere? La possiamo raccontare solo nelle nostre memorie difensive, nei vari processi alla Resistenza con i quali ci sfiancano nelle aule dei tribunali, quando non ci arrestano direttamente? Se lo saranno chiesto, i compagni di Onofri.
Confesso di essermi imbattuto nel caso Onofri all’inizio di una personale ricerca. Volevo scrivere una storia ispirata alla vita di mio padre, poco conosciuta da me anche per la distanza anagrafica che ci separava. Dovevo ricostruire la sua esperienza di gappista a Roma. Lui era riuscito a raccontarla in un romanzo che avrebbe pubblicato nel fatidico 1956, in una collana di «giovani autori» curata in Feltrinelli da Luciano Bianciardi (Alfredo Orecchio, Il sospetto). Anche questo era un libro colmo di senso di colpa e inadeguatezza. Pieno di cadaveri, topi, nascondigli. Era onesto. Mio padre aveva cercato di raccontare una storia difficile, ossia l’essere stato creatura del fascismo e l’avere combattuto nella Resistenza anche un nemico interiore, la parte nera di sé da estirpare. Esperienza condivisa, direi, con quasi tutti i giovani gappisti romani: uccidere il fascismo dentro e fuori, dimostrare continuamente il proprio comunismo. Una fatica di Ercole.
Quel libro paterno, però, era troppo smilzo e allusivo. Bisognava approfondire. Avevo quindi cominciato un percorso del tutto personale e senza alcuna pretesa di completezza nella memorialistica e letteratura resistenziale, percorso che per giunta posso rendicontare solo in parte in queste righe. E venne anche per me il momento di misurarsi con l’autore che mi sembra il più importante del gruppo, ossia Franco Calamandrei.
Tra i leader della Resistenza romana, ma anche raffinato intellettuale, Calamandrei ha già pronto il suo diario alla fine della guerra. Ma l’affaire Onofri – suggerisce sempre Casellato – lo convince a riporlo nel cassetto. Deve anche lui costruirsi una carriera prima di giornalista e poi di dirigente nel Pci. Dovrà passare molto tempo – fine anni Settanta – perché riprenda in mano il progetto di un romanzo della Resistenza. Ma la morte prematura nel 1982 gli impedisce di realizzarlo. La vita indivisibile (il diario partigiano) uscirà nel 1984 (poi per Giunti nel 1998, e meriterebbe davvero una nuova edizione). Le occasioni di vivere (altri diari e scritti) usciranno nel 1995 per La Nuova Italia, sempre grazie alla dedizione e cura della figlia Silvia (che ne ha poi proposto una versione ampliata).
La scrittura diaristica resistenziale di Calamandrei è cruciale, oltre ad avere un intenso valore letterario. Non è un caso che gli storici continuino a farvi riferimento. Quelle pagine contengono quanto di più importante si possa capire su Roma 1943-44 dal punto di vista di un giovane gappista. Il desiderio di riscatto per “cancellare il miserabile passato” («questa estrema occasione di intervenire, di farci una buona volta partecipi, non ci deve sfuggire»). La Resistenza come «sentimento finalmente di essere in mezzo alla vita». Il racconto nitido delle azioni di guerra (su tutte, le pagine dedicate alla morte di Teresa Gullace e a via Rasella). I ritratti dei vari compagni. L’amore per Maria Teresa Regard, che da compagna di lotta diventerà compagna di vita. E poi, magari dopo aver lanciato una bomba – e quindi in estremo e raggelante attrito –, il ritorno a casa a leggere Flaubert o a tradurre Proust; oppure un concerto di Brahms all’Adriano. Una vita, questa di Calamandrei nella Resistenza, che a me è sempre parsa più lacerata che indivisibile, più spezzata che coesa.
E, se parliamo di Calamandrei, non possiamo non tornare su Regard. Tra le protagoniste della Resistenza romana, per il suo coraggio e la sua spericolatezza. Figura davvero centrale: si vedano le pagine che le dedicano la già citata Chiara Colombini o Benedetta Tobagi ne La Resistenza delle donne (Einaudi 2022). Eppure, quasi all’opposto del marito, dopo la guerra Maria Teresa avrà poca voglia di raccontare. La sua memoria della Resistenza è schiva. Per «stanarla» servirà un’intervista maieutica di Sandro Portelli pubblicata nel 1998. Poi, negli anni finali della vita, le parole scritte arriveranno. Ma la sua Autobiografia uscirà solo postuma, nel 2010.
Il libro di Regard ci introduce a un dato: le memorie più significative degli ex gappisti vedono la luce in volumi conchiusi (per articoli e saggi sparsi ci vorrebbe un ragionamento a parte) tra la fine degli anni Novanta e gli anni Dieci. Molto tardi, insomma. Certo, non è del tutto vero. Rosario Bentivegna ha pubblicato il suo Achtung Banditen! (altro libro «miliare») nel 1983. E, già che ci siamo, nel 1973 sono uscite le Lettere a Milano di Giorgio Amendola. Ma altri testi di gappisti di primissimo piano escono dopo. Marisa Musu pubblica nel 1997 il suo La ragazza di via Orazio (Mursia), e nel 1999 assieme a Ennio Polito Roma ribelle (Teti). Carla Capponi propone un attimo prima di morire Con cuore di donna (Il Saggiatore 2000; riedito nel 2023). Di Bentivegna (in dialogo con Michela Ponzani) esce nel 2011, per Einaudi, Senza fare di necessità virtù. E Mario Fiorentini (con Massimo Sestili) pubblica nel 2015 Sette mesi di guerriglia urbana (Odradek).
Cosa è successo? Dovrebbe spiegarlo uno storico. Qui si può avanzare qualche ipotesi. Il Pci non c’è più e, anche se ci fosse, una «situazione Onofri» sarebbe inverosimile. La vita dei resistenti è inoltre al suo esito, non si può rimandare un possibile racconto. Ed è iniziata l’era di Silvio Berlusconi e dei suoi alleati neo-post-fascisti. Fiorisce il revisionismo. Anche in campo «amico» non mancano le sorprese. Si pensi al discorso di insediamento alla presidenza della Camera di Luciano Violante nel 1996, col famoso riferimento al dovere di capire le «ragioni dei vinti», i «ragazzi di Salò». La Resistenza subisce la sfida più pericolosa dell’era repubblicana e la sua causa un po’ impolverata torna a incendiarsi di necessità, rendendo urgente la scrittura.
Le memorie a posteriori dei gappisti romani risentono in certi casi di una «messa in posa», per dirla con Portelli, che, se attenua il loro valore di fonti primarie, ne alza però spesso il livello letterario. Succede nel volume di Capponi, che offre pagine indimenticabili. Si pensi a quelle che l’ex partigiana e dirigente comunista dedica alla battaglia di Porta San Paolo. Oppure al brano per me eccellente, all’altezza di certi scorci romani de L’Orologio di Carlo Levi, in cui Capponi racconta l’episodio del Traforo al Tritone, dove si rifugia assieme a una compagna dopo un’azione di guerra, trovando decine di sfollati.
Siamo alla fine. Mi rendo conto di avere omesso molti titoli. Ma vi avevo avvertito: questa è solo una ridotta selezione personale. E ci sarebbe ancora molto da dire sulla letteratura di seconda, terza e quarta generazione. Quelli che portano la fiaccola. Mi limito a citare due riedizioni recenti. Le Storie di uno scemo di guerra di Ascanio Celestini, che Einaudi riporta in libreria, dove la liberazione di Roma è raccontata dal punto di vista di un ragazzino. E Tutti i sognatori di Filippo Tuena (Fazi 1999, Nottetempo 2024): qui l’autore romano racconta una famiglia durante l’occupazione tedesca attingendo a memorie famigliari e materiali storici, e avvia quel percorso di narrazione documentale che si completerà nelle opere magistrali degli anni Zero.
E, a proposito di anniversari, non dimentichiamo che siamo nel cinquantesimo de La Storia di Elsa Morante. Da leggere non manca.
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