Europa

E sul web la rivolta si fa audience

Populismi I combattenti della guerra civile virtuale si scatenano nei post e nei selfie. Ma temono le piazze reali

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 11 aprile 2014

Chiamiamo populismo il processo che lega il leader carismatico alla massa dei seguaci al fine di costruire un Popolo a immagine e somiglianza del Capo. Ciò di cui stiamo parlando è innanzitutto una forma del discorso, una relazione tra chi parla e i fan che si dispongono ad ascoltare. La convergenza tra le retoriche partecipative della neotelevisione e l’appiattimento dei contenuti tipica di un uso frivolo della rete è la caratteristica decisiva di quello che definiamo populismo digitale. Facebook, ad esempio, è stato pensato come dispositivo superficiale eppure pervasivo; se adoperato in mancanza di fondamenti solidi, cultura autonoma e spirito critico diviene la prosecuzione con altri media delle logiche di potere della televisione-verità o dei microfoni messi sotto il naso della gente comune.
Qualche mese fa, nella Francia che covava il successo elettorale del Front National, un milione e seicentomila persone cliccavano sulla fantomatica icona del pollice alzato di Zuckerberg per manifestare la loro ammirazione verso un commerciante che aveva ucciso, sparandogli alle spalle, un ragazzo di 19 anni mentre fuggiva dopo aver tentato una rapina. Il populismo digitale ha la funzione storica di cancellare le contraddizioni, trasformare i molti in uno indistinto e addomesticato: ingabbia la ricchezza della società dentro il feticcio interclassista e totalizzante, pacificato e unitario, del Popolo utilizzando un frame che sarebbe sciagurato pensare di poter manovrare da sinistra. Grazie alla massificazione e alla distribuzione capillare della rete, questa forma attuale del populismo pervade la vita quotidiana, si annida negli oscuri interstizi delle inquietudini dei cittadini spaesati e spossati dalla crisi. Basta condividere qualche assurdità per essere arruolati nell’esercito liquido che combatte la guerra civile simulata. Al momento in cui scriviamo, ad esempio, più di 316 mila internauti hanno condiviso sulle loro timeline la bufala secondo cui «dal primo aprile si consentirà a tutti i rom di viaggiare gratuitamente su tutti i mezzi del trasporto pubblico nazionale».
L’esercito di cui parliamo è composto da tossicodipendenti digitali che paiono usciti da un romanzo cyberpunk: non riescono a fare a meno delle scariche d’adrenalina istantanee che si presentano sotto forma di post. La dipendenza compulsiva e inconscia deriva dal bisogno di essere mobilitati, stimolati, esibiti da chi tesse le fila della rete. Dalla pulsione ad essere condivisi dai commilitoni della maggioranza che un tempo si voleva silenziosa e che adesso diviene virtuale. Va da sé che questo popolo non può che essere audience. Tutt’al più si può candidare al ruolo da comprimario come nei talent show, magari può fare da giuria popolare nei processi contro i dissidenti, a volte partecipa a sondaggi o televoti.
Uno degli effetti della relazione populista è infatti quello di rafforzare la delega: il popolo si abbandona alla rappresentazione dilagante, che finisce per rianimare la rappresentanza agonizzante. Così, il gioco della politica istituzionale si dipana ineffabile dentro il recinto grottesco e totalizzante dell’arco spettacolare. Il premier di turno tiene la sua orazione in Parlamento con lo sguardo alla telecamera, rivolgendosi a «chi ci guarda da casa». La sedicente opposizione, anche se pare integerrima, segue la stessa logica: gli assalti ai banchi del governo hanno l’obiettivo di occupare lo spazio mediatico ed emotivo che in altri paesi hanno le mobilitazioni di piazza. I combattenti digitali della guerra civile simulata temono le strade, che hanno smesso di essere il luogo dell’incontro e dello scontro e si limitano al più a ospitare i comizi del Capo o le rappresentazioni itineranti dei suoi adepti. Ci si raduna attorno a un palco come quando Fiorello sbarcava nelle piazze di provincia col karaoke, misurando l’ugola dei dilettanti allo sbaraglio. Il popolo vuole applaudire, fotografare col telefonino e condividere i selfie in rete per far sapere di esserci. Allo stesso modo, i junkie digitali seguono i talk show nella speranza che il loro beniamino politico «distrugga», «faccia a pezzi» o «sbugiardi» (locuzioni frequenti nel fervore da tastiera dei commenti online) l’interlocutore.
L’intelligenza collettiva è rimpiazzata da un’armata di cervelli sconnessi, telecomandati e sottoposti al bombardamento del linguaggio televisivo che ha colonizzato la sfera digitale. I disertori digitali che non appartengono a nessun popolo sanno che la necessaria riconquista della rete ricomincia dalla strada.

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