E se la macchina s’inceppa? Una trilogia di ammutinamento di Giuseppe Stellato
Domenico Riso in «La trilogia delle macchine» – Andrea Avezzù
Visioni

E se la macchina s’inceppa? Una trilogia di ammutinamento di Giuseppe Stellato

Intervista Il regista e scenografo racconta il suo spettacolo, una riflessione sui media, lo spazio e l’obbedienza
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 16 giugno 2022

Marcuse ne L’uomo a una dimensione sottolinea come l’ordine sociale dell’epoca post industriale permei ogni aspetto dell’esistenza umana. La vita si riduce al bisogno indotto di produrre e consumare, senza possibilità di resistenza, anche nel tempo libero. Così non siamo più individui ma consumatori euforici e ottusi, la cui (falsa) libertà è data dalla possibilità di scegliere tra i vari prodotti, in un rapporto uomo- macchina che non è liberante ma ultra alienante. Trilogia delle macchine di Giuseppe Stellato, artista napoletano e scenografo di Antonio Latella, compie un ulteriore passo in avanti a partire da queste e altre riflessioni che i suoi lavori evocano.

La trilogia, composta da installazioni e performance nate in tempi diversi a partire dal 2017, per la prima volta è stata presentata al completo il 13 giugno al Campania Teatro Festival. Si replica il 18 giugno a FESTIL_, festival estivo del litorale tra Udine e Trieste.

In scena una lavatrice che finisce per esplodere, un distributore di snack impazzito e un bancomat inceppato con cui il performer, pittore e scenografo Domenico Riso si relaziona. Sullo sfondo, una drammaturgia sonora tra noise e elettronica costruita dal vivo con i rumori metallici di movimenti meccanizzati e amplificati, voci umane o robotiche registrate e mandate a loop in luoghi di passaggio pubblici e anonimi.

«Ho studiato Arte contemporanea e Installazione multimediale all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Antonio Latella mi propose di lavorare con lui come scenografo dopo aver visto una mia mostra di installazioni. Gli interessava la mia concezione dello spazio. Dopo i lavori come scenografo di Stabile/ Mobile, ho avviato un mio percorso autoriale».

Mi interessa capire il distacco che proviamo quando vediamo determinate scene attraverso i media, quando un video diventa così virale da perdere il suo impattoGiuseppe Stellato

«OBLÒ», Mind the Gap e Atm non sono concepiti come una trilogia: sono nati uno dopo l’altro, in maniera consequenziale. Tutto è iniziato nel 2016 all’Asilo Filangieri, centro culturale nel centro storico di Napoli occupato nel 2012 da un gruppo di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo. Qui, oltre a un teatro che compagnie e artisti usano come spazio produttivo e di prove, gli attivisti hanno costruito «l’armeria», una sorta di officina permanente con elementi di falegnameria, scenografia, disegno, illumino tecnica. «All’Asilo c’era la possibilità di fare tutte le modifiche tecniche che servivano e provarle subito in teatro: questo ha facilitato molto il nostro lavoro». Gli oggetti ogni sera producono suoni diversi con cui Stellato e l’ingegnere del suono Andrea Gianessi e il light designer Simone De Angelis interagiscono dal vivo.

Giuseppe Stellato

IL PROGETTO, con la collaborazione alla drammaturgia di Linda Dalisi, all’inizio ha avuto la supervisione del suono di Franco Visioli. «Ci ha detto: così come aprite e studiate gli oggetti per capire cosa c’è dentro, mettiamoci un microfono e vediamo cosa succede». In questo modo si è sviluppata una drammaturgia sonora legata ai materiali, al loro rapporto con lo spazio. «In Mind the gap, gli oggetti cadono ogni volta in maniera diversa, producendo una partitura. In Oblò, pur avendo provato a programmare la sua fine, la lavatrice si distrugge ogni sera in un modo differente».

La trilogia sfugge ai canoni prestabiliti della messa in scena e si presta a «succedere» ovunque: dal teatro allo spazio informale, al museo di arte contemporanea. Siamo «in between» la performance, l’installazione, il teatro, l’happening, il dj set. Pur lasciando aperta ogni possibilità d’interpretazione, c’è un fil rouge che unisce i tre movimenti. «Oblò, il primo, è nato nel periodo delle tragedie quotidiane nel Mediterraneo. Le voci registrate mi sono servite a unire i pezzi di un racconto». Il perfomer tratteggia una linea rossa a dividere palco e platea mentre il rumore della lavatrice si mischia a voci registrate: giovani risate, una corsa, grida da un naufragio. Alla fine estrae dal cestello i vestiti di un bambino che colano pittura rossa su un rumore di risacca.

«DOVEVO arrivare a quell’immagine del piccolo corpo spiaggiato: mi interessava capire il distacco che sentiamo quando vediamo determinate scene attraverso i media, quando un video diventa così virale da perdere il suo impatto drammatico. La linea rossa diventa un gesto/ simbolo del filtro che mettiamo davanti alla realtà quando è troppo forte».

In Mind the gap il distributore inizia a espellere anarchicamente oggetti che raccontano storie: una scarpetta, un passaporto, un dizionario, frutta secca e proiettili inondati da una cascata di sabbia, mentre una voce registrata testimonia le tappe di un lungo viaggio dall’Africa all’Europa di un migrante. Stesso setting, macchina diversa per Automatic teller machine: un bancomat viene meno ai comandi e inizia a vomitare una quantità indefinita di dati personali degli utenti, mentre sullo schermo si succedono frammenti di immagini di eventi del nostro contemporaneo che si disintegra come dei bugs, tra flutti di inchiostro nero. Ecco come oggetti di uso quotidiano diventano una lente deformante, uno specchio, attivando persino un transfert: a un tratto s’inceppano, si ribellano, esplodono, come se si rifiutassero di eseguire i comandi. Quasi come se quelle macchine ammutinate fossimo noi.

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