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È scontro istituzionale su Dayton, Dodik: «Pronti a secessione pacifica»

È scontro istituzionale su Dayton, Dodik: «Pronti a secessione pacifica»Milorad Dodik e i suoi militari – Ap

Bosnia Alta tensione. Dietro la crisi, Russia e Usa. Christian Schmidt: «Rischio di guerra». I giovani in piazza a Sarajevo dicono no e basta corruzione

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 7 novembre 2021

È l’alba a Sarajevo Est. Il solo suono che si ode è il fischio forte del vento. Tutto intorno, scheletri di ciò che era la capitale prima della guerra. Le forze di polizia perquisiscono diverse case, una svolta nell’omicidio di due poliziotti bosniaci ammazzati dalla ‘mafia delle auto’ le ha portate qui, in una città della Republika Srpska (RS, una delle due entità, a maggioranza serba, che compongono la Bosnia-Erzegovina, ndr) ad est della capitale.

L’operazione sfuma per un disguido tra le autorità a diverso livello competenti del caso. Normale amministrazione a queste latitudini: per cessare una guerra è stato necessario bloccare un Paese. In questa infinita sclerosi la Bosnia si dimena da quasi trent’anni, frantumata in piccoli feudi soggiogati dai partiti etno-nazionalisti del dopoguerra. E così quello che poteva essere il giorno della giustizia torna ad essere un giorno uguale a tutti gli altri: serbo-bosniaci contro bosniaci musulmani contro croato-bosniaci. Chi teme la guerra, chi la pregusta, chi la paventa. Di più, è il giorno di Milorad Dodik, uomo forte della RS. Tronfio della resa dell’Occidente ai diktat della Russia al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, rilancia: «Se l’Onu non riconosce l’Alto rappresentante, non può essere riconosciuto neanche qui».

Per capire l’escalation in corso, occorre riavvolgere il nastro all’estate scorsa, quando è stata introdotto un reato per chi nega il genocidio di Srebrenica. È l’ultimo atto del mandato di Valentin Inzko, Alto rappresentante per la Bosnia, istituto previsto dagli accordi di pace di Dayton per garantirne l’attuazione nel Paese. La decisione ha gettato benzina sul fuoco: da allora i rappresentanti della RS hanno boicottato le istituzioni federali e ora Dodik minaccia una «secessione pacifica» dalla Bosnia.
La settimana prossima l’Assemblea della RS ha messo al voto delle proposte con cui «ritira» competenze e attribuzioni che negli anni erano state trasferite a livello federale: giustizia, difesa e tassazione indiretta. L’obiettivo è riportare Dayton alla versione originaria, sostiene Dodik. L’obiettivo è distruggere l’unità dello Stato, risponde Sarajevo.

La più roboante delle proposte è quella riguardante il ritiro delle forze armate dall’esercito. Dodik poi vorrebbe imporre il divieto ad agenzie di sicurezza e di intelligence bosniaca di fare ingresso sul territorio della RS. Un film già visto negli anni Novanta: il solo evocare quel preludio di morte è sufficiente a far tremare un Paese frustrato, stanco, lacerato. «Non permetteremo che la Bosnia venga divisa» attacca Ida, uno dei pochi volti giovani che si scorgono alla manifestazione organizzata di fronte all’Ambasciata Americana a Sarajevo. Capelli lunghi d’oro, solare e sportiva, Ida è tornata a Sarajevo per qualche settimana dal Kuwait dove lavora in un hotel di lusso come hostess. «Uno choc culturale» e insieme «una scelta obbligata», spiega Ida: in Bosnia la corruzione dilaga quanto la povertà e la politica guarda al suo orticello.

Negli ultimi anni si è intensificato l’esodo dei giovani dalla Bosnia. «Al primo segnale di un nuovo conflitto, andranno via anche quelli che sono rimasti: siamo pronti alla guerra, non ad altre perdite», racconta ancora Ida a cui quella stagione di sangue ha strappato un padre che era ancora una bambina. Insieme a Ida, un gruppo di uomini e donne brandisce cartelli in cui chiedono l’intervento degli Stati Uniti contro le spinte secessioniste serbe, ma anche croate, il volto gentile dell’implosione della Bosnia. La partita si gioca non solo a Belgrado, ma anche a Zagabria che punta a far approvare una riforma elettorale che sancirebbe la creazione di una terza entità, croato-bosniaca, un’ulteriore divisione in uno Stato mai nato. L’epilogo però è già scritto. Nella risoluzione votata del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che rinnova il mandato della missione europea in Bosnia, Althea, viene tolto ogni riferimento all’Alto rappresentante. Un colpo di spugna imposto da Mosca e accettato all’unanimità, con cui si intende indebolire il guardiano degli accordi.

Non solo: nella sessione era previsto l’intervento di Christian Schmidt, il nuovo Alto rappresentante, che nel suo rapporto avvertiva di un «imminente pericolo di spaccatura» del Paese e della prospettiva «molto reale» di un ritorno alla guerra. Cancellato. È questo l’altare su cui si sta sacrificando la Bosnia: fare concessioni alla Russia per spezzare il suo asse con la Cina, il tutto con la benedizione di Ankara, più preoccupata dei suoi affari con Belgrado che dei legami culturali con Sarajevo.

La RS quindi può non avere capacità militari tali da poter pensare a un nuovo conflitto, ma ciò non esclude un collasso della Bosnia che potrebbe avvenire così, senza (quasi) colpo ferire e con l’appoggio della comunità internazionale. Un passo indietro che Sarajevo non può tollerare. Intanto, a dar man forte a Dodik, ieri è arrivato a Banja Luka, il premier ungherese Viktor Orban, capofila di altri Paesi europei schierati con i serbo-bosniaci.

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