E Roma risorgerà più bella che pria: Nerone e l’incendio
«Le grida di terrore aumentano e s’avvicinano. Il fumo penetra nell’oppidum. (…) L’incendio è nelle fornici! Altre voci gridano: Soccorso! Il circo divampa! Salvate le donne! Fuggi! fuggi! Di qua! No, Fermi! Ajuto! Attraverso le nubi dell’incendio si scorge la gente che fugge, che s’urta, che cade. Una fiumana di popolo irruente invade il criptoportico». Così l’incendio che distrusse vaste aree di Roma nel luglio del 64 d.C. è evocato nella didascalia del Quarto atto di Nerone, il melodramma di Arrigo Boito (1924, postumo). Per motivi vari, la catastrofe risulta ancor oggi suggestiva, e nel tempo ha generato tante rivisitazioni sceniche, letterarie e figurative (né manca la divulgazione mediatica, che l’ha trattata con risultati non sempre memorabili).
Torna a ragionarne ora, con impegno di storico, Anthony A. Barrett: Roma brucia Nerone e l’incendio che mise fine a una dinastia (Einaudi «La Biblioteca», pp. XII-380, € 32,00, traduzione di Marco Nani). Ogni ripensamento dell’incendio neroniano deve muovere da quanto ne hanno scritto le fonti antiche, in particolare Tacito, Svetonio e Dione Cassio. Barrett, già noto al pubblico italiano per il suo Caligola. L’ambiguità di un tiranno (Mondadori 1992), sa bene che la tradizione antica relativa ad alcuni imperatori è marcata da tendenziosità non correggibili e da rumors elevati a fatti. Poiché Nerone è figura maltrattata dalla memoria storica, urge verificare la credibilità delle notizie su di lui, e su un tema così complicato come l’incendio di Roma.
Perfino il sobrio Tacito è riconosciuto come autore di un «brillante esercizio di scrittura faziosa», dunque la cautela non è mai abbastanza. Ma è poi difficile, in assenza di concrete evidenze da confrontare, andare oltre un generico buon senso rispetto alle notizie tramandate. Un esempio: secondo la tradizione, furono visti in Roma uomini al servizio di Nerone agire da incendiari, segno che le fiamme non erano incidentali, ma volute dal Cesare. Poteva essere suggestione erronea di una folla spaventata: anche Renzo viene preso per un «untore» nella Milano appestata. Barrett, razionalizzando, ipotizza che fossero vigiles impegnati a creare spazi tagliafuoco, la cui azione fu malvista o equivocata da chi aveva diroccate le proprie proprietà.
Più volte, nel libri si lamenta la qualità delle informazioni sulla dinamica dell’incendio e l’estensione precisa delle distruzioni: Barrett ne discute a lungo, cercando di arrivare a un quadro attendibile, ma pretende da storici antichi, che erano letterati, la cura di dettagli propri di un rapporto della Protezione civile. Tacito e gli altri non sono «colleghi» degli storici odierni, e non giova lamentare imprecisioni o incertezze su dati a loro non noti o per loro non rilevanti. Le loro narrazioni sono definite qui un «genitore inadeguato», perché «la nostra conoscenza degli eventi dovrebbe essere figlia della felice unione dell’archeologia con le fonti letterarie». La metafora erotica lascia perplessi, giacché quel «matrimonio» tra pagine scritte e reperti è in realtà molto problematico, come mostra la querelle sulle origini di Roma.
Ciò detto, elemento efficace del libro sono certamente le pagine dedicate (con piante e immagini) alle tracce archeologiche dell’incendio. Il materiale proviene da scavi e pubblicazioni, talora risalenti a decenni fa, ma portati all’attenzione del pubblico in anni recenti (per esempio, nella mostra su Nerone a Roma del 2011, con catalogo Electa). Il ricorso ai dati archeologici è accompagnato, in aiuto al lettore non esperto, da considerazioni non troppo tecniche: «le sezioni verticali portate alla luce in uno scavo ricorderanno le fette di una torta di pan di Spagna con diverse farciture». Il gusto anglosassone per l’ironia e l’understatement sta forse sfuggendo di mano. Resta vero, i marmi calcinati e le grate contorte, sepolti dai successivi terrazzamenti del terreno, hanno più fascino che le sottigliezze critiche e storiografiche.
Eppure, il libro mostra qualche difetto: la tendenza a dilatare l’esposizione (che richiede trecento pagine) implica lungaggini e ripetizioni di materiali. Vi sono poi refusi (non solo nel latino) e scelte traduttive non felici (che cos’è un «eclatante strato di materiale bruciato»? È così corrente parlare di monete «ruspe»?). Ma l’incendio colossale è un evento così mediatico, che il lettore va oltre, per interesse al tema.
Parte importante ha il dibattito, già antico, sulle cause o le responsabilità dell’accaduto. Rievocata la struttura urbanistica di Roma, ripensate le notizie sul diffondersi delle fiamme (scarso qui il supporto dei dati archeologici, che non documentano eventuali inneschi), prevale l’idea che la causa fu accidentale. La posizione di Nerone, tuttavia, non sfugge alle insinuazioni di Tacito (che pure, tra le fonti antiche, meno esplicitamente chiama in causa il principe): vengono discussi alcuni indizi a carico, con lunghe analisi di verisimiglianza o di carattere psicologico. Gli interventi durante la catastrofe sono ben commentati: ma non li si confronta con i modi in cui, nel mondo romano, erano affrontati i terremoti, studio che implica pure il raccordo tra fonti scritte e tracce archeologiche.
Il pogrom seguito all’incendio è altra ragione della celebrità dell’evento. A Nerone sono collegate le prime, molto studiate testimonianze non evangeliche relative alla presenza di cristiani nell’impero. Sulle repressioni che colpirono il gruppo, individuato come colpevole, il testo più importante resta Tacito, che sui cristiani oscilla tra il disprezzo verso la superstitio e l’orrore per le forme della crudele persecuzione. Quanto alla «nuova Roma» della ricostruzione, essa fu positivamente valutata già da Tacito (meno da altri, troppo legati al ritratto «mostruoso» di Nerone), e lo è pure da Barrett.
Dei progetti relativi ai palazzi imperiali, poco è sopravvissuto alle ristrutturazioni nell’area tra il Palatino, il colle Oppio e il Celio, e della Domus aurea si sa, in fondo, meno di quanto la sua fama richiederebbe: adeguatamente pop il confronto con i castelli di Ludwig (perché non con il grandioso e mai completato palazzo della Pilotta?). Sull’incompiutezza delle realizzazioni neroniane si poteva insistere di più, a maggior ragione per quelle urbanistiche, inaugurate dai Flavi dopo la precoce fine del regno (Nerone si suicidò nel giugno del 68 d.C.): anche a Roma si completarono nel dopoguerra progetti iniziati nel Ventennio.
Il sottotitolo evidenzia un nesso tra le conseguenze economiche, sociali e quindi politiche dell’incendio e la fine della dinastia Giulio-Claudia. Si ragiona sulla monetazione dopo il 64, e sulla possibile crisi economica derivata dalle spese ingenti dalle riparazioni. La congiura dei Pisoni, scoperta e repressa duramente nel 65, con illustri vittime, sarebbe stata il segno della rottura tra Nerone e una parte dell’aristocrazia romana, insofferente alle scelte successive alla catastrofe. Se nulla vieta che sia andata così, pure nulla obbliga. Tanto più se la congiura fu una «azione sconclusionata dagli obiettivi confusi» (non così la repressione).
Il libro termina con un quadro della fortuna letteraria dell’incendio: i testi teatrali ci son tutti, compreso Boito (con i suoi versi solenni: «Ciò ch’ io struggo/ risorge. Il mondo è mio! Pria di Nerone/ nessun sapea quant’osar può chi regna»). Ci sono i film, e pure un gruppo punk-rock britannico (ignoto a chi scrive), che in un testo cita l’incendio di Roma. Ma, se si rincorrono le «icone della cultura popolare», vanno aggiunti il Sordi di Mio figlio Nerone (1956), e soprattutto il Nerone indimenticabile di Petrolini (1936): senza responsabilità dell’incendio perché «assicurato con la Fondiaria», l’imperatore promette al popolo che «Roma risorgerà, più bella, e più superba che pria!». La palingenesi di Roma, però, ancora attende.
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