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E Renzi tenta il primo sgambetto

E Renzi tenta il primo sgambettoRoberto Giachetti, vicepresidente della camera

Democrack La mozione Giachetti pro Mattarellum manda in fibrillazione il Pd. Che litiga per un pomeriggio intero poi si ricompatta in aula. Il sindaco di Firenze: «Troppa democristianeria del governo»

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 30 maggio 2013

«Il Pd è diventato un partito di Letta e di governo», sospira Giacomo Portas, «moderati» indipendenti nel Pd. L’ex segretario della federazione di Roma Miccoli allarga le braccia: «Sono andate bene le amministrative? Mai due giorni consecutivi di pace». Matteo Orfini, giovane turco, ragiona: «Martedì abbiamo fatto una riunione sulle riforme costituzionali. Lì ciascuno ha detto la sua posizione: io, per esempio, ho spiegato che in una discussione sul semipresidenzialismo non posso accettare il vincolo di maggioranza. Ma perché i firmatari della mozione per il ritorno al Mattarellum ha preso la parola? Questa mozione, che non ha nessuna speranza di avere successo, ha solo l’effetto di mettere in mostra in aula un Pd spaccato. A dieci giorni dai ballottaggi».

Sul banco degli imputati per tutto il pomeriggio c’è, a prima vista, il vicepresidente della camera Roberto Giachetti, reo di aver presentato, da settimane, e fatto firmare da cento parlamentari una mozione per il ritorno al Mattarellum: un paracadute nel caso si torni al voto prima di cambiare la legge elettorale. La sfiducia nel percorso delle riforme è esplicita. Né è solo di Giachetti. Per questo il Pdl e Scelta civica strillano al «problema politico», prontamente sostenuti da Anna Finocchiaro, che pure una settimana fa aveva presentato al senato una proposta dello stesso tenore. Stavolta invece tuona: «Iniziativa intempestiva e prepotente». Indubbiamente la mozione è una mina nel difficile accordo sulle riforme. E quindi una mina lanciata verso il governo Letta. E il vero regista dell’operazione-Giachetti, giurano in molti, nel Pd è il sindaco di Firenze. Il quale mentre a Montecitorio si scatena la tempesta democratica, dalla trasmissione 8 e mezzo su La 7 omaggia Letta di affettuosità del tipo : «C’è un eccesso di democristianeria nel governo, e non di quella buona. Letta è una persona molto seria, un amico con l’amicizia vera. Il problema è che dobbiamo uscire da questa sabbia mobile che sta bloccando tutto». Un amico.

Alla camera invece è Giachetti a muovere la scena. Il quale sarà anche un renziano, ma in realtà è un ex radicale dalle iniziative politiche sempre vivaci: difficile sospettarlo di essere eterodiretto. Per chiedere una riforma elettorale l’estate scorsa ha fatto due mesi di sciopero della fame. Alla sua mozione dicono sì Sel, prodiani e i veltroniani del Pd, e cioè quelli che avevano promosso il referendum di Arturo Parisi.
Nel pomeriggio, alla riunione dei deputati, Roberto Speranza chiede a Giachetti di ritirare il testo e riceve un no secco. Il gruppo comunque vota contro, sono 34 i sì e 5 gli astenuti. Intanto però in 14 hanno ritirato la firma dalla mozione. Arriva anche una mezza presa di distanza da Matteo Richetti, renzianissimo: «È un atto di indirizzo sfasato rispetto alla mozione sulle riforme. O ci provi veramente a percorrere quel cammino o non ci provi. Non puoi come prima cosa occuparti del fallimento». In aula finisce con una valanga di no e 139 sì: ovvero il voto compatto di Sel e dell’M5S (che pure non ha simpatia per il Mattarellum). E Giachetti. «Mettere il carro davanti ai buoi vuol dire far deragliare il carro», dice Letta ai giornalisti. Ma sa bene che l’iniziativa di Giachetti svela il segreto di pulcinella: la sfiducia generale sulle riforme. Replica Giachetti: «Ho già provato nella scorsa legislatura a superare il porcellum, posso solo dire amichevolmente a Letta che possono stare tranquilli che con un po’ più di fantasia, appena possibile, ci riproverò».

Risolve la vicenda Guglielmo Epifani: la mozione Giachetti «era largamente condivisibile, ma oggi avrebbe diviso, mentre noi volevamo far partire il processo delle riforme». Un processo che, se mai dovesse entrare nel merito, metterà a nudo le distanze interne del Pd. Già ieri è spuntato un documento votato da 43 parlamentari che, pur votando sì alla mozione governativa (come Rosy Bindi, Pippo Civati, Vannino Chiti, Walter Tocci, Laura Puppato) – o non partecipando al voto (come la prodiana Sandra Zampa) – su quel processo avanza seri dubbi di merito: «La deroga alla procedura di revisione costituzionale rappresenta un oggettivo problema e un pericoloso precedente», dice. «L’estensione delle materie soggette a riforma configurano una riscrittura sostanziale della seconda parte della Costituzione la quale semmai esigerebbe un sensibile rafforzamento del sistema delle garanzie procedimentali».

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