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E Renzi invoca la lotta dura

E Renzi invoca la lotta duraGiorgio Napolitano e Matteo Renzi – Sintesi visiva

Lavoro Napolitano scende in campo a spada tratta contro l’articolo 18: il governo mantenga gli impegni, coraggio contro i conservatorismi. Il premier: serve un cambiamento violento

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 23 settembre 2014

A gamba tesa e senza remore. L’arbitro Giorgio Napolitano scende in campo come il più sfegatato dei pasdaran e mitraglia il mitragliabile: l’art. 18 (pardon, le sue misere vestigia) e con lui l’intero Statuto dei lavoratori. Il Paese non può più “essere prigioniero di conservatorismi e corporativismi». Il Colle confida «nella concretizzazione degli impegni assunti dal governoper il superamento di situazioni ormai insostenibili». Poi l’affondo: «E’ inutile sbraitare contro la Ue. L’Italia e l’Europa possono uscire dalla crisi solo con politiche nuove e coraggiose per la crescita e per l’occupazione»

E’ un pronuciamento a fianco di Renzi e della sua riforma. E’ un atto di fede nei dogmi, pur smentiti dalla realtà, per cui solo saccheggiando diritti si possono risollevare le sorti dell’economia e creare posti di lavoro. E’ una levata di scudi contro la Cgil, contro l’opposizione, contro mezzo Pd.
Dalla Silicon Valley Renzi duetta: «Sono consapevole che alcune cose vanno cambiate in modo violento. Arriva il momento che per fare contenti tutti facciamo arrabbiare qualcuno». Che il presidente del consiglio proceda a passo di panzer è comprensibile: la riforma è sua, ovvio che la difenda a spada tratta. Molto meno consueta la sparata del capo dello Stato.

Se Napolitano ha avvertito il bisogno di esporsi fino a questo punto, di prendere la parola non come un presidente della repubblica ma come un parlamentare d’assalto è per diversi motivi. Prima di tutto l’inqulino del Quirinale è convinto, come Renzi, che la mazzata contro i dei diritti e contro i sindacati sia il lasciapassare per ottenere vincoli meno rigidi dall’Europa. In privato gli uomini del premier nemmeno fingono di nasconderlo. Ammettono senza perifrasi che l’obiettivo principale del job acts, che approda oggi nell’aula del Senato, è proprio convincere l’Europa del «coraggio» del governo italiano. Da questo punto di vista, il braccio di ferro con la sinistra interna del Pd e con la Cgil non d ispiace affatto a Renzi. Per dimostrare il proprio valore c’è bisogno di qualche «resistenza conservatrice», sennò sarebbe troppo facile e poco meritorio.

In secondo luogo, però, Napolitano guarda alla politica interna. Fi, come ampiamente previsto, ha lanciato la sua offensiva: «Siamo pronti a votare anche la fiducia – dice Brunetta – se Renzi non fa marcia indietro. Ma se la fiducia passasse solo grazie al nostro voto non ci sarebbe più maggioranza, con tutte le conseguenze del caso». In realtà la strategia di Fi è più articolata. Certo, se la fiducia fosse ottenuta solo grazie al «soccorso azzurro», promesso ieri anche da Toti, il cambio di maggioranza e la rinascita anche ufficiale delle larghe intese sarebbe inevitabile. Ma anche qualora la legge sul lavoro fosse approvata senza fiducia però con i voti azzurri decisivi e non aggiuntivi il risultato sarebbe quasi identico. Formalmente Fi resterebbe all’opposizione, ma sarebbe del tutto evidente che l’asse sul quale si regge la politica economica del governo è lo stesso che sostiene le riforme istituzionali: il patto del Nazareno

E’ questo che Renzi vuole evitare, per motivi d’immagine più che sostanza, e Napolitano è del medesimo avviso. L’intemerata di ieri è stata soprattutto un messaggio contundente inviato ai riottosi del Pd.
Stamattina i gruppi parlamentari democratici affronteranno il nodo. All’assemblea doverebbero partecipare il responsabile Lavoro del Pd Taddei e il ministro Poletti, la cui presenza però è diventata all’ultimo minuto incerta. Sull’esito del braccio di ferro non ci sono dubbi. Ove il sostegno al job acts non fosse certo, Renzi ricorerrebbe alla fiducia pur di non dover contare alla luce del sole sui voti deterinanti del socio di Arcore. Negare la fiducia vorrebbe dire per i senatori ribelli del Pd provocare la elezioni anticipate, con certezza di non ricandidatura. Scelta priva di suspence: si piegherebbero come giunchi.

Però far passare con la fiducia una legge che segna una ferita profondissima per la stessa base elettorale del Pd non è decisione che si possa prendere a cuor leggero. E’ d’obbligo tentare di ottenere la resa dei dissidenti senza ricorrere subito al voto di fiducia. Come? Con il bastone, soprattutto, ma anche un po’ con la carotina. Ieri sono arrivate le mazzate di Napolitano, di Renzi, e quelle anche più pesanti di Lotti: «Chi ha perso le primarie non può dettare la linea». Oggi al pugno di ferro si accompagnerà la ricerca di una mediazione di facciata: diritti a pezzi, ma il govrno garantirà ammortizzatori a volontà. Con quali soldi resterà misterioso.

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