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È morto il boss dello «Stato balia» di Singapore

È morto il boss dello «Stato balia» di SingaporeL'immagine di Lee in un quotidiano di Singapore – Reuters

Singapore Deceduto Lee Kuan Yew, padre e padrone della città Stato, hub finanziario mondiale ed esempio di autoritarismo politico

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 24 marzo 2015

Lee Kuan Yew, il padre della «città Stato» Singapore, modello economico e politico per non pochi leader nel mondo, è morto a 91 anni. La sua dipartita non gli permetterà di assistere alle celebrazioni dei 50 anni della repubblica di Singapore, avvenuta dopo l’indipendenza da Gran Bretagna e Commonwealth e dopo alcuni anni «condivisi» con la Malesia.

Lee Kuan Yew, personaggio intransigente e autoritario, è celebrato come il fondatore del «nanny State» – lo Stato balia – uno degli apparati burocratici più invasivi nei confronti delle libertà personali, ma in grado di diventare il quarto hub finanziario del mondo (da un villaggio di pescatori quale era). Ordine, disciplina, capacità di attrarre investimenti e l’inaugurazione di una vera e propria dinastia politica. A Lee infatti, primo ministro per 31 anni, è seguito nell’incarico il figlio maggiore. Niente male per il paese che si definisce altamente «meritocratico». Lee del resto lo aveva detto, in una delle sue celebri frasi: «Quali sono le nostre priorità? In primo luogo, il benessere, la sopravvivenza della gente. Poi, norme e processi democratici che talvolta dobbiamo sospendere».

Nel 1954 ha fondato il Partito d’azione popolare e quando a Singapore venne concesso l’autogoverno nel 1959, divenne il primo presidente del Consiglio, rimanendo in quella posizione fino al 1990, quando ha completato una transizione verso «una seconda generazione di leader» (rimanendo sempre in famiglia).

«Se è possibile selezionare una popolazione e sono istruiti e propriamente educati, allora non c’è bisogno di usare troppo il bastone, perché sono già stati addestrati, ha spiegato Lee. È come con i cani. Li si addestra in modo corretto da piccoli. Sanno che avranno modo di allontanarsi, andare fuori a fare pipì e defecare. No, non siamo quel tipo di società. Abbiamo dovuto addestrare cani adulti che ancora oggi deliberatamente urinano negli ascensori».

Nel suo libro di memorie, La storia di Singapore, Lee ha detto che se non avesse scelto per una linea dura in termine di ordine e pulizia, Singapore sarebbe stata una «società più grossolana, rude e cruda». In primo luogo, ha spiegato, abbiamo «educato ed esortato la nostra gente. Dopo che abbiamo convinto e conquistato una maggioranza, abbiamo legiferato per punire la minoranza. Ciò ha reso Singapore un luogo più piacevole in cui vivere. Se questo è uno «Stato balia», io sono orgoglioso di averne promosso uno».

La verità è che Singapore ha adottato un modello di sviluppo basato sul basso costo del lavoro e una minima tassazione agli investimenti stranieri, diventando uno dei paesi più ricchi del mondo. Parallelamente ha sviluppato uno straordinario concetto di ordine, pulizia e disciplina.

Una società basata sui divieti (alcuni assurdi ai nostri occhi come ad esempio quelli relativi ai chewing gum, vietati), sulle tensioni razziali, come quelle scoppiate nel 1964 (la popolazione di Singapore è in maggioranza cinese, seguita da malesi e indiani) e sul pugno duro contro la stampa e chiunque non la pensasse come il vecchio padrone dello Stato Lee. Nonostante questo ieri, i leader mondiali, Obama compreso, si sono sprecati in elogi. Ha stupito di meno il commento positivo su Lee arrivato dal boss cinese, Xi Jinping. Per molto tempo, negli ultimi anni, il modello di sviluppo singaporeano è stato guardato con attenzione da Pechino e identificato come uno dei sistemi migliori per tenere insieme capitale, intervento dello Stato e una forma rigida di autoritarismo politico.

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