Si gioca tutta sulle tempistiche l’inchiesta per inondazione colposa e omicidio colposo plurimo della procura di Ancona sull’alluvione che giovedì scorso ha sommerso Senigallia e i paesi vicini, con 11 morti e ancora 2 dispersi. La procuratrice Monica Garulli l’ha detto chiaro e tondo: «Dal punto di vista della dinamica degli eventi, quello che si riscontra al momento è che non c’è stata un’allerta da parte della Regione Marche nei confronti dei comuni». Questo è il primissimo passaggio di un’indagine che si annuncia lunga: la ricostruzione della catena delle responsabilità, del resto, non è affar semplice. «Siamo in una fase molto iniziale – ha detto ancora Garulli – e tutte le ipotesi ricostruttive sono prese in considerazione: a questo riguardo la principale preoccupazione della procura è quella di garantire e di assicurare le fonti di prova che possono essere di ausilio alla ricostruzione dei fatti». Oltre alle testimonianze dei sindaci e dei tecnici, cioè, gli investigatori si avvarranno anche di perizie tecniche e di consulenze sugli argini del fiume Misa e sulle misure esistenti che si attuano in caso di forti piogge. Il primo punto, comunque, è quello dell’allerta: gialla per Senigallia e alcuni comuni, verde per altri. Paolo Sandroni, responsabile del Centro funzionale multirischi della protezione civile marchigiana, difende il proprio operato: «Penso che se un meteorologo avesse in mano le carte anche oggi farebbe la stessa previsione, abbiamo agito seguendo scienza e coscienza sulla base di modelli matematici e studi scientifici che indicavano un codice di allerta gialla come il più idoneo».

Sul fronte politico, con la campagna elettorale che malgrado tutto continua ad andare avanti, la polemica divampa su quello che stavano facendo il governatore Francesco Acquaroli e il suo assessore alla protezione civile Stefano Aguzzi mentre mezza regione finiva sott’acqua. Se il primo era a una cena elettorale, il secondo stava tenendo un comizio. Entrambi, comunque, giurano e spergiurano di essere stati operativi dal momento esatto in cui si è capita la gravità della situazione.

Ad ogni modo, i problemi del Misa sono noti da anni: è dal 1986 che si discute di vasche di contenimento e, in ogni caso, nel 2014 il fiume esondò causando tre morti. Più che le responsabilità dell’ultimo momento, dunque, non si può non considerare che la situazione viene sottovalutata da tempo immemore: la cura del territorio, del resto, non si improvvisa.
Intanto, si comincia a parlare del conto dei danni. Se per Acquaroli la faccenda è estremamente vaga – «Non sarà un miliardo e forse non saranno nemmeno dieci» -, la stima ufficiosa che filtra dagli uffici della Regione è di due miliardi. Ovviamente si tratta di una cifra molto provvisoria, anche perché, ad esempio, molti imprenditori ancora non sono riusciti a rientrare nelle loro proprietà e capire cosa in effetti si è salvato dall’inondazione.

Ci sarebbero poi anche altri due miliardi di euro che sarebbero necessari alla messa in sicurezza dei tredici fiumi che il Consorzio di Bonifica considera perennemente a rischio.
Quest’affermazione si basa su due studi diversi fatti realizzare proprio dal consorzio: il primo è una mappa delle varie criticità; il secondo, realizzato sulla base delle direttive Ispra, è un’analisi di tipo previsionale per cercare di capire com’erano i fiumi e, soprattutto, come saranno. Da qui emerge che il rischio esondazione, nelle Marche, non riguarda solo il Misa, ma anche altri fiumi come il Nevola, l’Aso, il Tesino, il Tronto e il Tenna. I problemi riguardano soprattutto le strettoie per il deflusso delle acque. L’allarme è lanciato, il problema a questo punto riguarda quasi esclusivamente la cura del territorio. Questo è il capitolo più doloroso: i fondi del Commissario al rischio idrogeologico delle Marche sono stati azzerati negli ultimi due anni, e anche il finanziamento da dieci milioni di euro arrivato dal ministero della Transizione Ecologica un anno fa è stato utilizzato per vari corsi d’acqua ma non per il Misa. E, comunque, si trattava di fondi dedicati al miglioramento della situazione, non all’adeguamento a standard che evitino il rischio disastro.