«L’Ecuador oggi è una trincea per tutta l’America latina». Così dice al manifesto Guillaume Long, ministro degli Esteri e della mobilità umana. Lo abbiamo incontrato all’Istituto italo-latinoamericano (Ila) durante la firma di un protocollo d’intesa con le Piccole e medie imprese per progetti di microcredito rivolti ai migranti ecuadoriani.

Oggi, il suo paese decide chi sarà il successore di Rafael Correa alla presidenza. Per Alianza Pais – la compagine governativa – corre Lenin Moreno. Per l’alleanza Creo-Suma, il banchiere Guillermo Lasso.

Al primo turno, Moreno ha ottenuto 39,36% (3.716.343), mentre Lasso ha totalizzato il 28,09% (2.652.403 voti). Un voto-chiave per la regione, in un momento di grande offensiva conservatrice e di grande tensione nel paese.

Le destre hanno intenzione di non riconoscere i risultati in caso di scarto minimo. Contano su buone entrature negli altri comandi delle Forze armate e nella polizia che, nel 2010, ha avuto l’ardire di sequestrare il presidente. Confidano nel voto di protesta di alcuni settori indigeni che si ritengono traditi da Correa, e anche sulla parzialità di componenti all’interno del Consejo Nacional Electoral (Cne).

Lasso, padrone del Banco de Guayaquil è noto per il cosiddetto «feriado bancario». Durante la crisi finanziaria del 1999, l’8 marzo venne decretato un giorno di ferie delle banche, che poi si prolungò per cinque, durante i quali vennero sospese tutte le operazioni: il tempo di portare i soldi all’estero e di lasciare a secco i risparmiatori.

L’allora presidente Jamil Mahuad, foraggiato dai banchieri, decretò «il congelamento dei depositi» per un anno.

Come valuta i risultati del primo turno? Di sicuro avete vinto alla grande sul referendum contro i paradisi fiscali.

A febbraio si sono svolti 3 processi elettorali importanti: presidenziali, legislative e referendum. Moreno ha superato Lasso di 11 punti, ma ci sono mancati 66.000 voti su 12 milioni di aventi diritto. Per vincere occorreva o il 40% con dieci punti di differenza o il 50 più uno. Sono sicuro che vinceremo ora. Intanto, abbiamo la maggioranza alle legislative (74 su 136, oltre la metà dei deputati) e questo ci consentirà comunque di governare. Un fatto importante nel contesto latinoamericano delle nostre democrazie presidenziali.

Abbiamo visto quel che è successo in Brasile, quel che sta succedendo in Venezuela con lo scontro tra legislativo ed esecutivo. Senza maggioranza in Parlamento, si possono destabilizzare i governi. Non è lo stesso quorum che avevamo prima, ma dopo 10 anni di governo si può considerare fisiologico. Il terzo voto poteva apparire un azzardo. Di solito i governi preferiscono indire i referendum durante la «luna di miele».

Il popolo, però, ha capito che si trattava di un tema di interesse nazionale e globale contro i paradisi fiscali e ha votato per proibire a tutti i funzionari pubblici e a tutti gli eletti di avere beni e conti offshore, dove s’invola l’equivalente di circa il 30% del nostro Pil. Succede nella maggior parte del sud globale e anche nei paesi ricchi.

Solo che quelli in via di sviluppo vengono privati di risorse fondamentali. In Ecuador le imposte sono basse (20% rispetto al 38% in Europa), ma conmunque le élite non le pagano. Nel 2016, il presidente Correa ha approfittato dello scandalo dei Panama Paper’s perlanciare un patto etico al paese. A settembre abbiamo posto il tema a livello internazionale. All’Onu abbiamo rilanciato una vecchia battaglia del sud globale: la costituzione di un gruppo intergovernativo per la giustizia fiscale.

Lasso ha votato No.

Per non andare contro i suoi interessi. Sappiamo che possiede almeno 49 imprese offsfhore. Fino al 2014, le rimesse degli immigrati ecuadoriani all’estero, espulsi dalle politiche neoliberiste, sono state al primo posto nelle entrate del paese, prima ancora di quelle petrolifere: 1.700 milioni di dollari all’anno, inviati a 100 euro alla volta. Più o meno l’equivalente di quanto questi banchieri esportano in un anno nei paradisi fiscali. Per questo è importante che l’Ecuador non torni indietro e che il processo progressista costituente prosegua. Questo voto oggi è una trincea per tutta l’America latina.

Come ministro degli Esteri, come valuta questi primi mesi dell’amministrazione Trump?

Finora abbiamo cercato di non cadere nelle provocazioni, rispettiamo le decisioni degli elettori statunitensi, ma di certo siamo molto preoccupati. Noi crediamo vadano costruiti ponti, non muri. Negli Usa vive più di un milione di migranti ecuadoriani, sia quelli regolari che quelli irregolari si rivolgono ai nostri consolati, chiedono informazioni e aiuto. Abbiamo esteso l’orario degli uffici, istituito in tutto il paese seminari informativi e sportelli legali gratuiti. Abbiamo fatto rete con tutti i sindaci, i giudici che non accettano le deportazioni di Trump. Anche Obama ha raggiunto record nelle deportazioni: circa 1.200 ecuadoriani all’anno, ma non ne ha fatto una politica di stato. Un motivo in più per consolidare l’integrazione latinoamericana. Alcuni blocchi regionali come Celac e Unasur si sono già espressi contro la politica dei Muri.

Ma l’integrazione latinoamericana non è a rischio? Come valuta le decisioni di Almagro all’Osa contro il Venezuela?

Bisogna capire che, come fu per l’Unione europea delle origini, l’integrazione regionale deve diventare una politica degli stati, non solo dei governi. Anche se la logica del capitale esiste, essere uniti serve a non farsela imporre. Questo purtroppo non è scontato. I Segretari generali, di qualunque organismo, devono rispondere a chi li ha eletti, non ergersi a presidenti planetari assumendo il punto di vista di una parte sola, come sta facendo Almagro. Lo critichiamo perché con le sue ingerenze viola la sovranità del Venezuela e la legalità delle istituzioni. Non può agire al di fuori del suo mandato.