E il padrone si fermò davanti alla piazza
Sergio Cofferati, allora segretario generale della Cgil, parla al Circo Massimo davanti a 3 milioni di persone il 3 marzo 2002 contro l'abolizione dell'articolo 18 proposta da Silvio Berlusconi – Foto Ansa
Politica

E il padrone si fermò davanti alla piazza

Asceso In Campo Berlusconi decise di fare marcia indietro sulla cancellazione dell'articolo 18 e riforma delle pensioni. Ma solo per tornaconto personale
Pubblicato più di un anno faEdizione del 13 giugno 2023

«Nelle mie aziende non c’è mai stata un’ora di sciopero». Si tratta di una delle poche affermazioni veritiere pronunciate da Silvio Berlusconi. Almeno fino al 2010, quando, con lui impegnato a palazzo Chigi per la quarta volta, a Mediaset andò in onda una protesta contro l’esternalizzazione di alcuni reparti.

Data per assodata l’assenza totale di etica in ogni suo comportamento e le idee che plasmava (e ribaltava) a seconda del suo solo interesse, nessuno a sinistra, nei sindacati e nella variegata galassia antiberlusconiana è mai riuscito a comprovare in maniera inequivoca lo sfruttamento del lavoro e l’indole padronale. Che certamente c’era nel creatore di Milano 2, di Fininvest e del Milan ma era contemperata dalla capacità di offrire le condizioni di lavoro migliori a chiunque egli considerasse necessario al suo piano per fare soldi e successo.
Si dirà: facile, con tutti quei soldi di provenienza quanto meno chiacchierata. Resta il fatto che dal pallone al giornalismo, dal cinema all’edilizia la stragrande maggioranza dei suoi dipendenti lo considerava «il miglior datore di lavoro mai avuto» Anche chi non ne fosse correo.

La vera cesura con il mondo del lavoro però era inevitabile: due mondi così diversi non potevano che arrivare a conflitto. E accadde. Se la prova generale fu appena vinte le elezioni nel 1994 con il decreto che modificava pesantemente il sistema previdenziale, fu nel 2001 che lo scontro raggiunse con il sindacato l’acme. Seguendo il volere della Confindustria guidata all’allora dal sudista Antonio D’Amato, Berlusconi puntò al bersaglio grosso: lo scalpo dell’articolo 18. Ne propose la sostanziale abolizione.

La reazione popolare fu inaspettatamente dura. Sergio Cofferati da segretario della Cgil convinse tutto l’arco costituzionale che abolire lo strumento col quale un padrone poteva licenziare chi voleva – «Tu sì, tu no» – era porcata tale da chiamare alla piazza.

Al Circo Massimo arrivarono in tre milioni. Come nel 1994, Berlusconi fece subito marcia indietro.

Il tentativo di comprarsi il consenso della Cisl e della Uil riuscì solo in parte. E anche in quell’occasione Berlusconi dimostrò fiuto, fermandosi davanti all’opposizione popolare. Il seme comunque fu gettato: il lavoro lo portò a termine l’adepto Matteo Renzi nel 2015.

E così oggi che Berlusconi si congeda dall’agone politico, perfino Sergio Cofferati ne riconosce il rispetto: «Malgrado gli scontri, Berlusconi i rapporti col sindacato non li ha mai messi in discussione: con noi si confrontava, si scontrava, dando vita a conflitti anche assai aspri, ma il nostro ruolo non lo ha mai messo in discussione». E qui la differenza con Renzi c’è.
Molti poi considerano Berlusconi l’iniziatore della precarizzazione del lavoro. La legge Biagi è però molto più figlia dell’ex socialista Sacconi e del democristiano di sinistra Tiziano Treu che del Silvio che fu.

E a Silvio non portò che piccoli vantaggi personali. Troppo pochi per intestarsela.

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