Nell’agosto del 1969 Sabratha mi apparve bellissima: non caotica come Tripoli, non intimidente come Leptis Magna. Delle tre città antiche che hanno dato il nome alla Tripolitania, Sabratha era quella in cui il passato conviveva al meglio col presente: un’area archeologica estesa ma non smisurata, e accanto a essa una città non grande dove però si poteva trovare – certo, accontentandosi un po’ – tutto l’essenziale.

Avevo vent’anni, e non stavo nella pelle: ero lì per cominciare il mio primo lavoro da archeologo. Sarei stato pagato come un vero professionista, anche se non ero ancora laureato (allora succedeva anche questo: oggi archeologi con tanto di specializzazione e di dottorato sono a spasso). Il capo missione, Nino Di Vita, uno dei grandi nomi dell’archeologia italiana, aveva avuto fiducia in quel ragazzo che – stando al benevolo giudizio dei docenti con cui stava studiando alla Sapienza di Roma – si poteva già considerare un esperto di ceramica romana. In effetti mi ero fatto le ossa prima alla scuola di Lamboglia, l’iniziatore della ceramologia romana, e poi a Ostia antica, dove, nel cantiere-scuola dell’Istituto di Archeologia, di ceramica romana ne avevamo recuperato quantità impressionanti, prodotte in varie regioni dell’impero. Di Vita, scavando un mausoleo di Sabratha, ne aveva trovato a sua volta diversi metri cubi, e ora quelle migliaia di cocci aspettavano me: li avrei classificati per provenienza e per cronologia e avrei disegnato i tipi più significativi, in vista della pubblicazione (avevo già al mio attivo una recensione, ma questo sarebbe stato un ‘titolo’ ben più importante nel mio curriculum).

Nessuno oserà sostenere che studiare i cocci sia un lavoro eccitante (nel tempo ho raccolto sull’argomento un florilegio di citazioni, piuttosto divertenti, di non archeologi, da Boris Vian a Melania Mazzucco). Men che mai lo era in quel magazzino del museo di Sabratha, che l’implacabile sole africano trasformava dopo poche ore in una fornace. Si cominciava perciò all’alba, e si andava avanti finché si poteva umanamente resistere, tormentati per giunta da nugoli di mosche che nessun insetticida pareva impensierire. Quando finalmente la sera si levava una po’ di brezza, mi dedicavo all’esplorazione della città antica, talvolta sotto la guida dello stesso Di Vita.

I racconti di Bartoccini e Caputo

Il professore, che a me allora sembrava già vecchio mentre aveva solo poco più di quarant’anni, su ogni monumento aveva una quantità di informazioni che non si trovavano sui libri che avevo letto prima di partire, e che gli venivano da una tradizione orale che risaliva a Bartoccini e Caputo, i due pionieri degli scavi di Sabratha. Col risultato che, a poco a poco, mi andai ricredendo sull’archeologia italiana del periodo fascista, della quale all’inizio pensavo tutto il male possibile: tenuto conto delle difficoltà in cui avevano operato, delle pressioni del regime (il governatore Italo Balbo pretendeva segni spettacolari della grandezza di Roma) e della generale arretratezza metodologica dell’epoca, quegli archeologi avevano fatto del loro meglio. A Sabratha ciò vale in primo luogo per il monumento-simbolo: il teatro romano. La ricostruzione, portata a termine nel 1937 (lo stesso anno in cui a Roma si apriva la grande Mostra Augustea della Romanità, che celebrava il ritorno dell’impero sui ‘colli fatali’), non è esente da critiche (vedi l’uso del cemento armato) ma nel complesso è di grande effetto. Per i turisti più frettolosi la visita di Sabratha si riduce appunto al solo teatro, ma se ne ripartono appagati.

Il teatro era ed è tuttora usato per spettacoli moderni. La sera del 31 agosto del ’69 era in cartellone una rassegna di canti e danze popolari di diverse nazioni. Dato che le distrazioni per noi della missione erano poche (ci accontentavamo dei racconti che Di Vita, insuperabile affabulatore, ci faceva dopo cena), decidemmo di andarci tutti quanti. Lo spettacolo fu lunghissimo, e per nulla memorabile. La mattina del 1 settembre ci alzammo come al solito di buon’ora, ma fummo bloccati sulla porta da Ibrahim, il fido assistente di scavo, che con voce concitata ripeteva: «La rivoluzione! La rivoluzione!». Non capimmo davvero cosa era successo fino a quando non captammo una stazione tunisina in lingua francese: nella notte i militari, al comando di un certo colonnello Gheddafi, avevano deposto il vecchio re e preso il potere. Di Vita decise di prendere l’auto e andare a Tripoli, per consultarsi con l’ambasciata italiana, da cui formalmente la nostra missione dipendeva. Io dissi subito: «vengo anch’io». «Meglio di no – fece Di Vita –, può essere pericoloso». E io: «Ma se non la vedo adesso una rivoluzione, quando la vedo più?». Lui capì e mi fece salire.

Ero molto eccitato: alla mia prima missione mi incontravo con l’avventura, anzi con la Storia. In verità non assistemmo a nulla di epico, né quel giorno né i successivi. Il cambio di regime fu inizialmente molto soft. L’unico inconveniente fu che a Sabratha la nostra missione fu messa, per così dire, agli arresti domiciliari. Ci era permesso solo di arrivare all’attiguo ristorante, che naturalmente chiuse perché non arrivavano più turisti. Il proprietario, un italiano, la prese con filosofia: «Ragazzi – ci disse –, mangiate tutto quello che volete, tanto ormai sono rovinato». Fin tanto che lavoravo ai miei cocci in magazzino e saccheggiavo il bancone dei gelati del ristorante, non avevo motivo di preoccuparmi, ma arrivato il momento di ripartire, scoprii che aeroporti e porti erano chiusi, e non si sapeva come e quando avrei potuto tornare in Italia.

La frontiera con la Tunisia

Io però avevo degli esami da dare, dovevo assolutamente rientrare a Roma. Il buon Di Vita mi disse: «Una soluzione ci sarebbe, se te la senti: la frontiera con la Tunisia è vicina, e di lì so che si può ancora passare. Dopo le sbarre ci sono dieci chilometri di ‘terra di nessuno’, che rischi di doverti fare a piedi; ma una volta raggiunto il primo centro abitato tunisino, sicuramente troverai qualcosa per arrivare a Tunisi e prendere un aereo per l’Italia». Con l’incoscienza dei vent’anni accettai, e – zaino in spalla – mi incamminai nella ‘terra di nessuno’. Fortuna volle che dopo neanche un chilometro un gruppo di operai tunisini che, data la nuova situazione, stavano rientrando nel loro paese, accolse generosamente quel giovane ‘migrante’ sul loro autobus e lo depositò sano e salvo a Tunisi. Be’, sano è troppo dire: Sabratha mi aveva regalato esperienze preziose, tanto sul piano scientifico che su quello umano, ma purtroppo anche il virus dell’epatite, il quale mi aggredì dopo qualche settimana di incubazione. Volendo indulgere alla retorica, potrei dire che mi regalò anche quel ‘mal d’Africa’ che negli anni successivi mi avrebbe portato a lavorare per lunghi periodi in Algeria, in Tunisia e nuovamente in Libia. Mi è capitato di ritornare anche a Sabratha. L’ho trovata sempre affascinante, ma mai come lo fu per me in quell’estate del ’69.