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È finita (male) la stagione della caccia

Dopo 5 mesi, finalmente, il 31 gennaio scorso si è chiusa la stagione venatoria 2018-19. Un lunghissimo periodo di caccia e disturbo della fauna con un tragico bilancio anche in […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 7 febbraio 2019

Dopo 5 mesi, finalmente, il 31 gennaio scorso si è chiusa la stagione venatoria 2018-19. Un lunghissimo periodo di caccia e disturbo della fauna con un tragico bilancio anche in termini di vite umane. Secondo il dossier realizzato dall’Associazione «Vittime della caccia» a fine stagione si registrano 21 morti e 59 feriti legati alla caccia. Un prezzo altissimo che purtroppo hanno pagato anche persone che nulla vi hanno a che fare: tra i non cacciatori si contano infatti 9 morti e 18 feriti (di cui due minori).

E come ogni anno la cosiddetta caccia «legale» è stata circondata dall’ampia «zona grigia» del bracconaggio: i dati dei centri di recupero della fauna sparsi per l’Italia, e sempre più in difficoltà per i continui tagli ai fondi, confermano che buona parte delle uccisioni di animali protetti, dai rapaci ai lupi, avviene durante la stagione di caccia quando si registra un’impennata dei ricoveri di animali feriti da armi da fuoco. Una stagione nera anche per i numerosi tentativi di deregulation venatoria messi in atto da amministratori e politici delle varie Regioni che hanno fatto a gara per favorire i 570.000 cacciatori italiani (numero fortunatamente in calo da anni).

Molte regioni (Marche, Liguria, Veneto, Lombardia) hanno approvato nel 2018 leggi regionali in contrasto con le disposizioni nazionali ed europee, con l’unico obiettivo di avvantaggiare la parte più retrograda del mondo venatorio. Leggi che, su iniziativa del Ministro dell’Ambiente Sergio Costa, sono state impugnate dal Governo dinanzi alla Corte costituzionale, anche a seguito delle richieste delle associazioni animaliste e ambientaliste: un campionario di orrori faunistici e legali come l’annotazione «fai da te» sul tesserino venatorio o i contributi a pioggia ad associazioni con la scusa delle «tradizioni venatorie», per arrivare persino alla riproposizione della «caccia in deroga» ai piccoli uccelli (di pochi grammi di peso) come peppole e fringuelli nonostante questa barbara pratica sia stata bocciata più volte dalla Corte europea di giustizia e dalla Corte Costituzionale Italiana. E non sono mancati strampalati provvedimenti «ammazza lupi e orsi» da parte delle Province di Trento e Bolzano subito imitate dal Veneto.

Uno speciale premio «faccia di bronzo» spetta a quelle regione che hanno chiesto lo «stato di calamità» per i catastrofici eventi meteo che hanno colpito l’Italia in autunno, ma che non hanno sospeso, neppure per un breve periodo, la caccia, come se la fauna non risentisse della devastazione di un territorio e della scomparsa di boschi.

E che dire di Abruzzo, Campania, Liguria, Lazio, Marche, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria e ancora Provincia di Trento che hanno approvato calendari venatori illegittimi contro i quali il WWF con altre associazioni ha presentato ben 12 ricorsi ai Tribunali amministrativi regionali (caso limite le Marche che hanno continuato a legiferare nonostante le sconfitte davanti ai giudici): quasi sempre il giudice di primo o di secondo grado ha accolto le tesi degli «avvocati del Panda» bocciando la caccia nelle aree della Rete Natura 2000 protette a livello europeo o in quelle limitrofe al Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise dove vive l’Orso bruno marsicano; oppure sono stati riformati calendari venatori approvati senza gli obbligatori pareri dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale o in assenza di un piano faunistico-venatorio. Le Regioni, ma anche alcuni ministeri come quello delle Politiche agricole, sembrano dimenticare che la fauna selvatica costituisce un «patrimonio indisponibile dello Stato» per cui gli amministratori pubblici dovrebbero tutelarla nell’interesse dell’intera comunità e non gestirla come il giocattolino di una ristretta minoranza di cacciatori.

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