Francesco di Giorgio, “Atlante”, 1470-’75 circa, penna su pergamena, Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum

Sono pochi gli artisti senesi del Quattrocento entrati nelle Vite di Vasari. Sono menzionati Giacomo Cozzarelli e Domenico Di Bartolo, mentre con biografie separate l’aretino premia solo Jacopo della Quercia, il Vecchietta e Francesco di Giorgio Martini (che devono però condividere un medaglione maestro-allievo). L’ultimo è l’unico artista senese della sua generazione che riesce a guadagnarsi un giro di committenze internazionale davvero di alto livello: alla maturità è un artista cosmopolita i cui servigi sono contesi da molte corti, ed è allora che la Repubblica di Siena tenta di trattenerlo, con dichiarazioni d’apprezzamento che ripetono, in filigrana, quelle che il Comune di Firenze aveva espresso per Giotto più di un secolo prima.
È grandissimo architetto – per Vasari è secondo solo a Brunelleschi –, scultore, pittore, miniatore, medaglista, ingegnere idraulico e balistico, teorico dell’architettura. Un eclettismo possibile grazie a una creatività fremente che travolge edifici, arredi, armi, dipinti, sculture, amministrabile solo con l’uso del disegno e con squadre di collaboratori in una specie di studio mobile e allargato, dove gli assistenti fanno fatica a stare dietro all’impeto instancabile del capobottega che inventa senza remore, per ogni commessa, un nuovo vocabolario.
Partito Luciano Laurana per Napoli, Federico da Montefeltro necessitava di un sostituto. Il signore di Ubino era il condottiero più pagato d’Italia; forte di numerose vittorie e di intrecci in tutti i luoghi del potere della penisola italiana, ambiva a rendere il suo palazzo la dimora più ricca e sfarzosa del suo tempo: «non un palazzo, ma una città in forma de palazzo esser pareva», secondo la lode memorabile di Baldassarre Castiglione. Un edificio aggiornatissimo nelle scelte costruttive e di gusto, per cui erano fondamentali gli scambi continui con la cultura fiorentina.
Francesco di Giorgio si inserisce qua: con un’esperienza da scultore, pittore e ingegnere maturata a Siena, ben attento alle nuove mode di Firenze, poco dopo l’addio di Laurana nel 1472 comincia a cooperare con gli artisti impegnati nell’ornamentazione del palazzo di Urbino fornendo disegni per sculture, per intarsi e per stucchi ornamentali dimostrando poi, da teorico, di conoscere bene il vocabolario specifico chiamando per nome tutti gli elementi d’ornato: astragali, bacelli, cartocci, fusarole, scannelli eccetera.
Da qua il tiro s’allarga, e nel suo soggiorno urbinate diventa una sorta di soprintendente in moltissimi cantieri: «cento e trentasei edifici nelli quali continovamente si lavorava», dirà lui stesso. Un momento che lascia tracce importanti e avrà molte conseguenze, non solo a Urbino. Francesco è uno dei protagonisti indiscussi di quegli anni esaltanti, perciò è oggi al centro dell’esposizione Federico da Montefeltro e Francesco di Giorgio. Urbino crocevia delle arti, alla Galleria Nazionale delle Marche in Palazzo Ducale a Urbino, fino al 2 ottobre, a cura di Alessandro Angelini, Gabriele Fattorini e Giovanni Russo.
La mostra è un concentrato di studi. Si confermano alcuni dei risultati più interessanti usciti dell’esposizione senese del 1993, curata da Luciano Bellosi, su Francesco di Giorgio e il Rinascimento a Siena, raccogliendo e sintetizzando anche le ricerche più recenti. Tutto si tiene grazie a dei raggruppamenti di opere che, come nelle rassegne più riuscite, permettono di ramificare la narrazione, con note al testo che sono mostre nella mostra: si accenna agli inizi di Signorelli sotto l’ala di Piero della Francesca; si fa il punto su Francesco di Giorgio scultore; si dà il giusto peso al grande Pedro Berreguete e si ricrea il mondo brulicante, vivissimo, in cui matura Bramante; il palazzo non è solo il contenitore, ma è coinvolto come esito altissimo di quel frangente.
Si sente, sala dopo sala, l’incedere delle generazioni. Un passo dopo l’altro Francesco si sostituisce al maestro Vecchietta, di quasi trent’anni più anziano, mentre l’ambiente urbinate di Piero e Laurana, dove la prospettiva è scienza matematica e misura del mondo, perde di solennità, rincorrendo le eleganze e i raffinati virtuosismi della cultura artistica medicea: da Firenze arrivano codici sontuosamente miniati come l’Historia Florentina di Poggio Bracciolini (in mostra dalla Biblioteca Vaticana), e non mancano i passaggi di artisti come Pollaiolo, in città nel ’73, mentre Botticelli fornisce i disegni per le tarsie del palazzo.
Intanto il Montefeltro, «intendentissimo» di pittura, «mandò insino in Fiandra per trovare un maestro solenne» che sapesse dipingere a olio. Il duca era infatti interessato alle capacità illusive della pittura fiamminga, alla verosimiglianza nella riproduzioni dei volti, delle carni, dei tessuti, dei gioielli, e avrebbe voluto che quella stessa capacità mimetica si combinasse alla cultura prospettica urbinate; Piero a suo modo ci era riuscito, quasi anticipando la pittura olandese del Seicento, ma qualcun altro? Giusto di Gand è il primo pittore d’oltralpe a rispondere alla chiamata, ma non sta al passo, e i risultati sono un fallimento. Ci vorrà lo spagnolo Pedro Berruguete con la sua formazione avvenuta lungo la via Emilia, con innamoramenti che hanno lasciato dei segni importanti: Piero sempre rincorso, e Francesco del Cossa e Bellini… quando arriva a Urbino intreccia un dialogo con Francesco di Giorgio che rende l’aria incandescente. Il senese gli scarica addosso le lezioni dell’ultimo Donatello: le attenzioni alla resa atmosferica, all’espressività del movimento, all’architettura da utilizzare in funzione narrativa.
È avanguardia pura, come in nessun’altra corte europea. E bastano alcuni pezzi per capirlo: nel bassorilievo bronzeo con il Compianto sul Cristo morto già nell’oratorio di Santa Croce a Urbino, Francesco di Giorgio raggruppa le figure con disinvoltura, annodandole all’aria grazie a una lavorazione solo parziale della superficie del bronzo. È come se il mondo fosse avvolto da un pulviscolo corrusco e la materia, come cera, possa vibrare e modificarsi al contatto con il nostro calore, con un soffio. C’è poi sfoggio di architetture in prospettiva – com’è giusto a Urbino nell’ottavo decennio del Quattrocento – nei due esemplari a stucco della Discordia (dal Victoria and Albert di Londra e dalla Collezioni Chigi Saracini di Siena) e nella Flagellazione della Galleria Nazionale di Perugia, mente la spettacolarità del Compianto fittile di Quercegrossa, un apice della scultura quattrocentesca, è modellato al momento del rientro dell’artista a Siena. La vita che scorre sotto la pelle di queste figure rompe definitivamente l’equilibrio di razionalità e misura di Alberti e Piero: alle leggi matematiche immutabili che organizzavano l’esistente, Francesco aggiunge il caos dei sentimenti.
Berruguete risponde mostrandosi all’altezza delle aspettative del duca: lo sguardo limpido della pittura fiamminga è scosso da un nervosismo grafico che muove carni e tessuti, i muscoli pulsano e i volti reagiscono al dolore, come nel bellissimo Cristo morto di Brera, ora in mostra, in cui i sottili passaggi di tono arricchiti da increspature luminose coincidono con gli effetti pittorici dei bronzi di Francesco di Giorgio, e la fisionomia di Cristo trova corrispondenza con i rari brani di pittura autografi del senese, come nella Natività della Pinacoteca di Siena.
È qui, ma tenendo sempre presente il Piero della Francesca «fiammingo» della Madonna di Senigallia, che bisogna agganciare la produzione di Bartolomeo della Gatta e di Melozzo da Forlì per Urbino, percorribile in sintesi nelle opere convocate a Palazzo Ducale. Insomma, i riverberi di quella stagione si sentiranno a breve fino a Roma, fin dentro la Sistina, poi a nord, tramite Bramante, e ovviamente a Siena. Chi rimane a Urbino continua a celebrare nostalgicamente quel momento, finché a pochi passi da quel palazzo sospeso nel tempo, a poche settimane dalla morte del duca, nasce Raffaello.