Bob Dylan, il vento soffia ancora
In tour/60 anni fa usciva «The Freewheelin’», un disco che continua a parlarci L’autore di «Blowin’ in the Wind», contenuto nell’album del 1963, farà tappa nel nostro paese dal 3 al 9 luglio
In tour/60 anni fa usciva «The Freewheelin’», un disco che continua a parlarci L’autore di «Blowin’ in the Wind», contenuto nell’album del 1963, farà tappa nel nostro paese dal 3 al 9 luglio
Il Rough and Rowdy Ways World Wide Tour 2021-2024 di Bob Dylan, iniziato nel novembre 2021 negli States, sta per approdare in Italia. Il tour ha già attraversato gran parte degli Usa e dell’Europa tra il 2021 e il 2022 e ad aprile è sbarcato in Giappone con undici show tra Osaka, Tokyo e Nagoya. Dopo il periodo pandemico il menestrello di Duluth è tornato a viaggiare con grande continuità: 21 concerti nell’autunno 2021 e ben 82 nel 2022. All’appello mancavano Spagna e Italia ma quest’anno l’artista ha messo in programma, oltre alle date giapponesi, anche un tour estivo in Europa, che inizierà il 2 giugno e toccherà ancora il Portogallo, poi la Spagna (con ben 12 concerti), parte della Francia (Carcassone, Aix-en- Provence e due serate a Lione) e, a inizio luglio, anche l’Italia.
I concerti che quest’anno il Premio Nobel terrà nella nostra penisola sono cinque. Mister Zimmerman non passava dalle nostre parti dalla primavera del 2018, quando addirittura si esibì in nove show tra Roma, Milano, Mantova, Firenze, Genova, Jesolo e Verona. Quest’anno sarà ancora a Milano, per due serate il 3 e 4 luglio al Teatro Arcimboldi, poi il 6 luglio al Lucca Summer Festival, il 7 luglio a Perugia per Umbria Jazz e infine il 9 luglio sarà a Roma all’Auditorium Parco della Musica.
CARATTERE RIBELLE
Ora che lo aspettiamo ancora una volta per sentirlo suonare e per vedere a che punto è della sua lunga strada, non è facile fare il punto su Bob Dylan. Non lo è mai stato, in verità. Robert Allen Zimmerman veniva da una famiglia della piccola borghesia ebraica del Minnesota ed era il classico bravo ragazzo di provincia. I genitori pensavano che la sua passione per la musica prima o poi sarebbe passata e avrebbe preso le redini del negozio di famiglia. Non avevano fatto i conti con il carattere ribelle del figlio e con l’ondata folk che stava investendo gli Stati Uniti. Bob ne fu travolto. Non aveva una bella voce, non suonava bene la chitarra, ma la sua ostinazione era grande. Così se ne andò da casa, prima a Minneapolis per studiare all’università, poi a New York. Ci arrivò alla fine di gennaio del 1961. «Andò dritto al Village – scrive Anthony Scaduto nella sua biografia di Dylan -. Si guardò intorno, esplorò le coffee house, i folk club e i bar per turisti tra Bleecker e MacDougal Street». Quello sarebbe diventato subito il suo mondo. All’inizio non era un granché come folksinger, ma era come una spugna. Imparava e apprendeva con una rapidità sorprendente. Tutto quello che sentiva o leggeva veniva assorbito e restituito con qualcosa in più. Quel qualcosa in più che finì per colpire Robert Shelton, che con un articolo sul New York Times gli spianò la strada per il primo contratto discografico, con John Hammond, il leggendario produttore della Cbs. Il contratto fu firmato nell’autunno del ’61. «Pensarono tutti che fossi pazzo» ha raccontato in seguito Hammond: «La Folkways e tutte le etichette discografiche dell’epoca lo avevano rifiutato. Ma io ritenni che avesse veramente qualcosa». Ne fu subito sicura anche Joan Baez, che era già una star del circuito folk americano: «Lo vidi per la prima volta al Gerde’s Folk City, un club nel Greenwich Village – scrive nella sua autobiografia -. Non faceva particolarmente impressione. Aveva l’aria di un ragazzotto di montagna da poco arrivato in città, coi capelli corti intorno alle orecchie e riccioluti in cima alla testa. Mentre suonava, saltellava da un piede all’altro e la chitarra lo faceva sembrare più piccolo. Portava una giacca di pelle lisa, di due misure più piccola. Le guance erano paffute, con poco dignitose tracce di pinguedine infantile. Ma la bocca era assassina: morbida, sensuale, da bambino, nervosa e reticente. Le parole delle sue canzoni le sputava fuori. Erano originali e fresche, per quanto brusche e grezze. Lui era assurdo, nuovo e sudicio oltre ogni dire».
Il primo disco di Dylan uscì al principio del ’62. E fu appena l’inizio. Il caso vuole che la prossima tournée in Italia del menestrello di Duluth coincida con i sessant’anni dalla pubblicazione di un’opera fondamentale nella produzione dylaniana, The Freewheelin’ Bob Dylan, pubblicato il 27 maggio 1963. Il disco contiene Blowin’ in the Wind, un inno, da sempre la chiamata alle armi per il popolo dei pacifisti e degli attivisti libertari, ma soprattutto la prima evidenza che Dylan non è uno dei tanti folksinger del Village. La melodia non era originale (Dylan aveva mutuato la strofa da un canto degli schiavi ribelli, No More Auction Block), ma la struttura della canzone e soprattutto il testo rendono evidente che l’artista ha cessato di essere un «Woody Guthrie juke box» (come lui stesso si definirà anni dopo) per diventare solo Bob Dylan. Con Blowin’ in the Wind aveva smesso di imitare i folksinger venuti prima di lui, Guthrie in testa. È il giro di boa. Se ne accorgono in molti, tra cui Pete Yarrow che con la versione del brano incisa dal suo gruppo (Peter, Paul and Mary) raggiunse il numero due delle classifiche statunitensi: «Improvvisamente uno straordinario poeta folk emerse sulla scena: era quasi l’emanazione diretta di Woody Guthrie. Ma c’era in lui qualcosa di davvero strano, granuloso e reale, che in qualche modo non derivava da Woody e lo rendeva maledettamente originale».
DOMANDE
L’America si trova di fronte un ragazzino prodigio che prende il blues e lo rovescia come un guanto, secco, nasale, con un sarcasmo che spesso diventa beffardo, duro e cattivo. Dice che la vita americana non è tutto questo ben di dio, che qualche domanda sarebbe il caso di porsela. In Blowin’ in the Wind ancora non si parla espressamente del Vietnam, ma il pacifismo c’è già, e forte. Il beat ha incontrato i movimenti giovanili, il Flower Power sta per esplodere, i ghetti neri lo faranno qualche anno dopo in modo ben più violento. Bob Dylan si trova lì nel mezzo, con le canzoni di Freewheelin’, poesie simboliste dai toni paurosi su quel che ci aspetta nella civiltà atomica (A Hard Rain’s A-Gonna Fall) e denunce in piena regola sul complesso militar-industriale che detta legge in America (Master of War). Con quella voce ruvida, nasale, il microfono sembra un megafono davanti al picchetto. Rabbia e accuse taglienti. Ma anche ironia, canzoni d’amore. Dylan trova strada aperta nel mercato discografico americano che allora arrancava: il rock non paga ancora, gli inglesi fanno man bassa di successi da hit parade, le cose migliori vengono dalla musica nera, però ancora confinata ai margini per motivi di razzismo cretino. I testi, prima che Dylan vada a metterci mano, dicono cose come «sono pazzo di te, baby», insomma hanno bisogno di altre parole per coinvolgere una generazione, quella kennediana, che si affaccia sulla scena convinta di poter cambiare il mondo. Il disco custodisce la più lucida rassegna di canzoni incisa in quel periodo in America, capace di spazzare via tutte le banalità dei brani commerciali che avevano soffocato la forza ribelle del primo rock and roll di quasi dieci anni prima. Cacciata in un angolo dalle canzonette imbecilli alla Pat Boone, quella musica nuova e sovversiva tornava ad affacciarsi in chiave acustica grazie alla genialità di un ragazzo che aveva appena compiuto 22 anni da tre giorni quando Freewheelin’ veniva mandato nei negozi. I semi gettati dai 13 brani del disco sono rintracciabili praticamente in ogni opera cantautorale pubblicata nei sessant’anni successivi.
A onore di quella storia iniziata sessant’anni fa, è bello sapere che il vento di Dylan sta per tornare a soffiare ancora una volta in Italia. Chissà che qualcuno non lo scopra per la prima volta, chissà che qualcuno non impari ancora qualcosa da questo straordinario artista.
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