Nel suo ultimo successo teatrale, La meteora, del 1966, Friedrich Dürrenmatt mette in scena uno scrittore, premio Nobel per la letteratura, che muore, ma poi «risorge e non crede nella propria resurrezione». Per questo provoca un duplice scandalo: chi non è credente è sconvolto dalla resurrezione, chi invece lo è dal fatto che a quel miracolo non si dia credito.

Figlio di un pastore protestante, Dürrenmatt è un autore che sin dai suoi inizi viene irresistibilmente attratto dal paradosso e tormentato dal problema della fede, della sua necessità e delle sue insidie. Venne profondamente influenzato dalla lettura di Karl Barth, da cui apprese le figure paradossali della teologia dialettica; ma anche l’opera di Kierkegaard, su cui avrebbe dovuto scrivere la sua dissertazione di laurea, era stata per lui fondamentale.

Contro ogni dogma
Nato e cresciuto nella Svizzera neutrale, Dürrenmatt visse la Seconda guerra soprattutto come una catastrofe morale e religiosa. Da qui la percezione di una mancanza di senso per lui intollerabile: non riusciva a credere in Dio, ma la fede gli era necessaria per non disperare di fronte alle ingiustizie e per conservare fiducia negli esseri umani.

Era ben consapevole, tuttavia, del fatto che qualsiasi fede si lascia motivare con un atto di fiducia irrazionale ed estremamente rischioso, perché ogni credenza dimentica la sua ingiustificabilità e tende a trasformarsi in un sapere certo. Proprio questo è intrinseco all’ideologia, dice Dürrenmatt, e talvolta anche alla teologia, la quale spesso dimentica l’instabilità del suo statuto epistemologico e trasforma i suoi assunti in dogmi. Neanche la scienza può fare a meno della fede per costruire le sue ipotesi e avvicinarsi a una verità peraltro irraggiungibile. Da attento lettore di Karl Popper, Dürrenmatt sa che l’indagine scientifica si nutre di finzioni, quindi di fantasie, come a suo modo la letteratura.

Anche quando ricorre a un genere popolare come il romanzo giallo, Dürrenmatt mantiene alta la sua tensione speculativa. Per far fronte alle difficoltà finanziarie, accetta di scrivere un romanzo a puntate per la rivista «Der Schweizerische Beobachter»: tra il 1950 e il 1951, pubblica dunque Il giudice e il suo boia, e poi, qualche mese dopo, Il sospetto, che esce in volume nel 1953. In Italia sarebbe stato tradotto negli anni Ottanta per Feltrinelli da Enrico Filippini, e ora Adelphi lo ripropone nella traduzione di Margherita Belardetti («Fabula», pp. 120, euro 15,00).

Dürrenmatt sovverte le leggi del genere e, allo stesso tempo, subdolamente le rispetta. Il colpevole verrà scoperto, ma non verrà fatta giustizia, perché essa è ormai un frutto del caso e dell’arbitrio. Il personaggio del detective, a cui il giallo affida il compito di ristabilire l’ordine della legge, viene posto da Dürrenmatt, sempre, in una condizione di estrema vulnerabilità.

Nel caso del Sospetto è di scena un commissario gravemente malato, già ormai in in pensione: si chiama Hans Bärlach ed è in ospedale, dove è appena stato operato. Per quanto gli resti poco da vivere, continua imperterrito a fare il suo mestiere e, grazie a un virtuoso eccesso di sospettosità, scopre le malefatte di un medico che ha ucciso centinaia di persone nei lager nazisti, operandole senza narcosi, soprendentemente con il loro consenso. Il medico si chiama Fritz Emmerberger e a guerra finita continua a praticare gli stessi metodi nella lussuosa clinica di Zurigo di cui è direttore.

Il climax coincide con lo scontro dialettico tra il medico e il commissario, una disputa filosofica sulle motivazioni del criminale e di chi lo combatte, dove il medico professa la sua fede in un materialismo incondizionato. L’unica realtà certa consiste per lui nelle leggi imperscrutabili della materia, che non ha bisogno di un dio, non conosce la giustizia, ma concede la libertà di essere e di fare quel che si vuole, al di là degli ordini morali edificati dalla debolezza umana. Torturare e di uccidere altri esseri umani, guardare la paura negli occhi delle proprie vittime: questa per lui è la libertà. Cosa ribattere? Emmenberger interroga ripetutamente il commissario su una fede da far valere contro la sua, ma Bärlach non trova parole di fronte alla sfida di quello che Kant definiva il male radicale. «La fede nel bene sarà nell’uomo almeno così forte come la fede nel male!», dice Emmenberger. «Mi mostri la sua fede!».

Il povero Bärlach non ha nulla da contrapporgli, nessuna certezza nel bene. Per Dürrenmatt, d’altronde, chi crede di sapere dove sia il bene si consegna al dogmatismo, che costituisce il presupposto di ogni tirannide. Qualsiasi fede che non sia attraversata dal dubbio puzza di sangue. Perciò lascia il personaggio di Bärlach senza parole, fragile e impotente. E affida il compito di arginare il male a un misterioso deus ex machina, un gigantesco ebreo errante con il volto sfigurato da mille ferite: si chiama Gulliver ed è l’unico sopravvissuto a un’operazione di Emmenberger. Era una vittima, ora si erge a giudice e pretende di punire facendo valere le proprie leggi.

Uomini coraggiosi
Anche lui si muove quindi nell’arbitrio, come Emmenberger, il criminale, e come Bärlach, il commissario. Dürrenmatt è innamorato di questi personaggi improbabili e donchisciotteschi che, nonostante tutto, continuano a combattere il male in tutte le sue forme, anche se la soglia della disumanità è sempre più incerta, più labile, continuamente da ridefinire, secondo scelte etiche che possono essere, in fondo, soltanto soggettive.

In un saggio del 1955, «Questioni di teatro», Dürrenmatt definisce questi personaggi «uomini coraggiosi». All’insensatezza del mondo si può rispondere con la disperazione; ma anche con la decisione di tener testa alla realtà, come quella figura letteraria, quel prodotto dell’immaginario e del sogno che è «Gulliver tra i giganti». «I sogni non mentono», dice il commissario Bärlach nel romanzo. È vero, peccato però che non possiamo mai essere certi di cosa esattamente significhino.