Alias Domenica

Durrell e Lesbo, l’isola flottante di un inglese alla greca

Durrell e Lesbo, l’isola flottante di un inglese alla grecaOssip Zadkine, Torso, 1947, collezione dell’artista

Speciale "Classical reception" Una signora non più giovane dominata dal desiderio di far bene e poi dalla sete di vendetta... Nel 1950 Lawrence Durrell, che non ha ancora scritto il Quartetto, pubblica il dramma teatrale Sappho, affascinato da Mitilene. L’anno dopo darà alla figlia avuta da Eve Cohen (la Justine della quadrilogia) il nome della poetessa

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 9 agosto 2020

«Meno di un usignolo fa»: less than a nightingale ago. Fra le tante ragioni per amare Lawrence Durrell, c’è il regalo di questa partitura animale del tempo, appoggiata senza parere in un distico di una delle tante poesie dedicate alla Grecia, «Arcadia».
«Meno di un usignolo»: di quest’espressione si ricorderà il poeta Giorgos Seferis, quando gli verrà chiesto di parlare di Durrell e degli anni strani e belli ad Alessandria, dove si erano ritrovati entrambi, con un incarico diplomatico, sospinti dalla marea dell’invasione tedesca della Grecia (nel 1942). Una città che Durrell confesserà di aver detestato a prima vista: una Napoli scomposta, allungata di fronte a un mare piatto e immobile, senza un accenno d’onda. E, ugualmente, pur con la sua volgarità esibita, approdo di poeti, artisti e intellettuali; rifugio temporaneo di eroi resistenti, come Patrick Leigh Fermor, «Paddy Fermor», il paladino inglese della resistenza cretese, protagonista, con il suo secondo, Billy Moss, di quella che rimane l’operazione più audace nella lotta greca contro l’invasione tedesca: il rapimento del generale Heinrich Kreipe, di stanza a Creta (nel 1944). Con Durrell, Fermor condivideva un «passaggio in India» (lì, vicino al Tibet, Durrell era nato nel 1912), una natura recalcitrante alle rigide regole della scuola inglese e, soprattutto, una psyché intimamente ellenica.
Quando Fermor si congeda da una vita intensa e lunghissima, nel 2011, sulla sua lapide viene incisa una citazione di Konstantinos Kavafis: «e in aggiunta, più di tutto, era greco».
Di certo, Durrell avrebbe riassunto la sua vita con le stesse parole di Kavafis e, del resto, la sua Alessandria è Grecia. Il Quartetto di Alessandria (1957-’60) è un omaggio, da Cipro, a una città alla fine molto amata e un tributo al poeta alessandrino. Un orizzonte che ti segue ovunque, che non ti lascia tregua, come cantava Kavafis stesso nella sua poesia «La città».
Alessandria serve a Durrell, e non solo a lui, per raccontare una terra che non è solo paesaggio attraversato, ma occhio vigile che scruta, ingloba, assimila. Durrell non si riterrà mai uno scrittore di viaggi: qualcuno che descrive, analizza, restituisce in immagini. Si vedrà piuttosto come un’espressione della Grecia: una sua emanazione. Un’idea non tanto diversa da quella che, negli stessi anni, Cesare Pavese andava immaginando per le sue terre lente e poco mosse delle Langhe. Un dio-paesaggio a cui tutti dobbiamo sottostare, come nelle ore calde sotto la canicola, e piegarci alla sua partitura.
Il ricordo che Seferis dedica all’amico viene pubblicato sulla copertina di un vinile che, nel 1963, la Jupiter Recordings riserva ai Greek Poems di Durrell: gli anni di Alessandria sono ormai lontani e l’amicizia si è sfilacciata nei many nightingales che scandiscono un rapporto complicato, fatto di momenti di intensa condivisione, ma anche di un allontanamento forse definitivo, quando Durrell, di stanza a Cipro, sceglie di non appoggiare convintamente la causa greca per il possesso dell’isola.
E se anche le posizioni si sono fatte inconciliabili, Seferis ancora può leggere, nel compagno degli anni alessandrini, una natura che è, prima di tutto, ellenica. Greca lo è dagli anni mitici di Corfù, inaugurati nel 1935, quando è proprio Lawrence a convincere la madre Luisa a lasciare con tutta la famiglia la «pudding island», per il sole caldo e la vita economicamente più sostenibile della Grecia. Di quel momento irripetibile abbiamo un celebre resoconto del fratello minore Gerard, autore de La mia famiglia e altri animali.
La scrittura di Durrell è stata definita classica: nel Quartetto di Alessandria – la quadrilogia che lo ha reso celebre –, nell’architettura poetica, persino nei libri di viaggio. In che modo lo sia o se, persino, abbia ormai più senso evocare un canone che è, prima di tutto, estetico, non è facile a dirsi. Certamente Durrell pensava la sua appartenenza alla Grecia come una scelta partigiana, di distacco: non dall’Inghilterra, ma dalla cesura potente provocata dal cristianesimo, responsabile, lui solo, della morte degli antichi dèi e della fine di una stagione aurea, continuamente evocata con lo stile dei cercatori d’oro, di libertà di pensiero e di creazione artistica.
Nell’opera di Durrell non ci sono eroi o anti-eroi alla maniera omerica e le divinità sono solo un concentrato di virtù e di vizi umani. La luce si fa pallida, le passioni attutite. Non sembra esserci spazio per i grandi chiaroscuri dell’epica antica o della tragedia.
Un esempio emblematico di questo scolorirsi dell’antico è la prima opera teatrale di Durrell, dedicata a Saffo: Sappho. A play in verse. La completa nel 1950 a Belgrado, dove si mormora che sia stato inviato come spia, anche se la genesi di questa tragedia quieta appartiene di certo al periodo precedente, quello del soggiorno argentino, a Cordoba (1947-’48). Una destinazione questa che, al pari di Belgrado, lo scrittore non riesce mai ad accettare, pur potendo godere dell’ospitalità e del sostegno della ricchissima mecenate Fanny de Llambi Campbell de Ferreyra, «Bebita», a cui il dramma teatrale è, appunto, dedicato.
È il fascino dell’isola, di Lesbo, a guidare Durrell a Saffo, più che l’ammirazione per la sua poesia. Quell’isola strana, la cui capitale, Mitilene, lo scrittore descrive come un teorema di geometria enunciato solo a metà. Il suo Play in verse, infatti, è un’île flottante, un mondo di acqua e di spostamenti per mare, in cui i personaggi si muovono con l’andatura incerta di chi sta in equilibrio sul ponte di una nave.
La Saffo di Durrell è poca cosa, davvero. Una signora non più giovanissima che si avvia alla mezza età e che pare dominata dal desiderio di «far bene», prima; e, poi, da una pulsione per niente eroica per la vendetta, dopo che Pittaco, all’anagrafe uno dei sette sapienti e celebre tiranno, ma qui a sorpresa ingaggiato nel ruolo di fratello di Faone, fa confezionare tavolette d’argilla che contengono notizie false, in base alle quali il marito di Saffo, Cleone, decide di togliersi la vita.
Del copione tradizionale, Durrell trattiene l’amore di Saffo per Faone, a cui a dire il vero gli antichi non sembrano prestare tanta attenzione. Il barcaiolo della leggenda, bello al punto da far innamorare ogni donna di Lesbo e Saffo più delle altre, in questa pièce è una sorta di scorbutico eremita che si tiene ben lontano dall’isola e non mostra nessuna tensione seduttiva né per la poetessa né per nessun’altra. Ugualmente, Saffo, come ci si aspetta da lei, lo ama, senza particolari accenti di originalità. Il suo è un dramma individuale e solitario che la porta fuori dal coro, lontano dalla vita comunitaria dove, soltanto, è possibile sentirsi liberi.
Questo pare essere il profondo convincimento di Durrell e, infatti, la sua Saffo canterà proprio la libertà: «acqua per i cigni, alveare per le api, oscurità per i pipistrelli» e «prigione dell’uomo libero». Un solo personaggio, all’interno del dramma, sembra incarnare questa declinazione della libertà come esperienza del sociale, ed è l’avvinazzato Diomede. Eppure Durrell, nell’epigrafe alla pièce, scriverà che proprio il personaggio di Diomede potrebbe essere sacrificato se qualcuno, con l’intenzione di portare in scena la sua Sappho, l’avesse trovata troppo lunga. Diomede è il personaggio che più somiglia al suo creatore, ma è anche, curiosamente, quello ritenuto meno essenziale nell’economia del testo.
L’anno successivo alla pubblicazione della Sappho, nel 1951, Durrell ha una figlia dalla seconda moglie, l’affascinante Eve Cohen, la Justine del Quartetto di Alessandria, conosciuta appunto nella città levantina. Le dà il nome della poetessa di Ereso: Saffo Jane. È forse la figlia a incarnare meglio quell’istinto tragico dei luoghi e dei miti che Durrell aveva scelto di ammorbidire nella sua personale visione dell’antico. Saffo Jane sognerà di uccidere il padre e di sottrarsi a un rapporto tossico che le succhia l’aria dai polmoni. Si toglierà la vita per impiccagione nel 1985: da sempre, la forma di suicidio scelta e imposta alle donne del mito greco-latino. Nel 1990 muore anche Durrell, che non si era mai ripreso.
Il fantasma della poetessa di Lesbo rimane fino alla fine a dettare il ritmo da usignoli della vita dello scrittore inglese e, del resto, proprio a un usignolo veniva paragonata Saffo nell’antichità: un uccellino nero e sgraziato, la sorella gemella di Virginia Woolf, come ebbe a dire Durrell stesso.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento