Durham, pellegrino di mobili geografie
Jimmie Durham, "La Malinche" (1988-’91), Gand, SMAK
Alias Domenica

Durham, pellegrino di mobili geografie

A Napoli, museo Madre, "Jimmie Durham: humanity is not a completed project", a cura di Kathryn Wier La prima mostra italiana dell'attivista che ha fatto della pietra, della carta, dei discorsi una nuova antropologia del vedere. Il museo e l’archivio, dispositivi di costruzione del sapere che l’artista di Houston (1940-2021) ha rovesciato con la sua arguzia post-coloniale
Pubblicato più di un anno faEdizione del 12 febbraio 2023

Dov’è il centro del mondo? Jimmie Durham non ha mai avuto dubbi: il centro del mondo è sempre stato là dove si trovava, perentorio e precario segnale, il suo bastone. Un bâton pour marquer le centre du monde, appunto, che è asta di bandiera e sostegno del viandante, emblema di chi ha scelto di vivere pellegrino tra culture e continenti.

Insofferente nei confronti di ogni stabile categoria, lontano da qualsiasi rigida coordinata, concettuale o geografica, per oltre cinquant’anni Durham ha instancabilmente esercitato una pratica (un pensiero) di decostruzione e di rovesciamento, nell’arte come nella vita. La sua opera tanto riconoscibile quanto indisciplinata è stata sempre un’ inchiesta, e poi una protesta, una presa di posizione ironica e tagliente, talvolta coraggiosamente comica, sulle convenzioni e le occulte relazioni di potere che sottendono il quadro geopolitico ufficiale e orientano, quindi, il sistema dell’arte, che di questo opaco scenario è uno specchio non troppo ustorio.

Ralph Rugoff, nella motivazione che ha accompagnato il Leone d’oro alla carriera attribuito all’artista nel 2019, ha definito le opere di Durham «raggi di luce», guizzi di intelligenza e dichiarazioni di impertinenza che mettono in questione il nostro modo di vedere, mostrandone i paradossi e i pregiudizi. Sollecitando, soprattutto, un tempo e un’attenzione che non sono quelli di consueto richiesti allo spettatore dell’arte: non è soltanto la vista, infatti, a essere coinvolta nel discorso estetico di Durham, che è stato anche performer e poeta raffinato. Il suo lavoro risuona nei corpi e si sedimenta nella parola, ogni volta ricollocata, discussa, analizzata nei suoi significati meno evidenti, soprattutto resa strumento di critica e di lotta civile.

Non sorprende così che Wikipedia anteponga attivista ad artista nella definizione, peraltro comunque impossibile, di Durham: la militanza di questo artista, nato a Houston nel 1940 e formatosi a Ginevra, fin dai primi anni settanta si è espressa nella partecipazione, non sempre serena, a movimenti e associazioni per i diritti civili (tra le sue tante battaglie, quella per il riconoscimento nelle sedi ufficiali della «Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni») trovando poi proprio nello spazio, mai recintato, dell’arte il territorio privilegiato di un contro discorso in cui agiscono, interpretati con lucidità e anche arguzia, temi e prospettive che sono oggi oggetto degli studi postcoloniali.

In particolare, Durham ha fatto della critica all’identità, un’«identità culturale» che secondo François Jullien «non esiste», l’occasione per creare in materie sempre diverse – dalla solida pietra, liberata dalla violenza di una scultura che impone la sua forza, alla fragilità, comunque tagliente, della carta – forme e pensieri, visioni disobbedienti e sempre inconcluse di un processo artistico e culturale che esplora i confini per riconoscerne l’incertezza e l’arbitrio. Per proporre un altro modo di scrivere e di leggere la storia e anche la geografia, come confermano le tante mappe che costellano il lavoro di Durham, artista che ha significativamente scelto di vivere in «Eurasia», e non in Europa.

Jimmie Durham, “Shiny Self-Portrait”, 2016

Irlanda, Paesi Bassi, Belgio, Francia e poi, in maniera più stabile, Berlino, città in cui è morto nel 2011, e Napoli sono alcuni dei luoghi che Jimmie Durham ha abitato con curiosità e indagato con passione, restituendo nelle sue opere – immagini, installazioni, saggi, versi, fotografie, video – il prodotto di una riflessione mai disgiunta dal dato soggettivo, da un’esperienza esistenziale di cui complice e compagna è stata per lunghi e fruttuosi anni Maria Thereza Alves, con cui l’artista ha tra l’altro concepito The Museum of European Normality, proposto nel 2008 a Manifesta, nomade biennale europea che in quella edizione era disseminata tra Trentino e Alto Adige.

E proprio il museo è uno dei dispositivi di costruzione del sapere che, insieme all’archivio, Durham ha più volte utilizzato, rovesciato per farne davvero un’eterotopia, svelandone il non detto, le tendenziose logiche di potere che si traducono in rigida classificazione e, quindi, in strumentale normalizzazione della conoscenza. Ripercorrere in una mostra l’opera di Jimmie Durham, riannodandone i percorsi e i temi senza trascurarne i contesti e le cronologie, significa quindi fare i conti proprio con la natura stessa dell’esposizione e del museo, che non può essere asettico contenitore e neppure compiacente vetrina ma attivo laboratorio di interpretazione, officina di pensiero e di visioni comunque provvisorie, inevitabilmente sbilanciate. E proprio in questa chiave di ricerca, di verifica di ipotesi critiche non allineate va letta la grande, e sicuramente impegnativa, impresa espositiva che a un anno dalla scomparsa Napoli ha voluto dedicare a un artista in cui il mondo dell’arte partenopeo ha riconosciuto un punto di riferimento e di vitale ispirazione.

Nelle stanze del museo Madre e anche, in maniera più intima, negli spazi della Fondazione Morra Greco, la ricerca di Jimmie Durham si mostra così fino al prossimo 10 aprile nella sua complessa articolazione, offrendo al pubblico un’occasione davvero imperdibile per confrontarsi con la sua opera e, soprattutto, con la sua prospettiva critica, con i tanti racconti che hanno scandito i luoghi e i processi del suo lavoro. Firmata per il Madre da Kathryn Wier, direttrice artistica uscente del museo, la mostra Jimmie Durham: humanity is not a completed project ha la densità e la qualità di un saggio, confermando un approccio curatoriale attento alle fonti teoriche e ai contesti culturali con cui le opere sempre si confrontano.

In una successione fitta di lavori significativi e di testi che non consentono distrazioni, la retrospettiva (la prima in Italia) propone al visitatore un’esperienza intensa in cui il ruolo della mediazione è importante e persino necessario. Ogni sala, ma in realtà ogni singolo lavoro (sono ben 150 le opere in mostra) , è infatti il condensato di una storia, di un’indagine, di un (serissimo) gioco che Durham ha condotto avvalendosi di una strumentazione concettuale affilata cui fa da controcanto una sensibilità poetica allarmata, una capacità di sentire e di vivere l’altro che impedisce ogni distanza analitica o contemplativa.

Il volto sofferto di Malinche (1988-’92), probabilmente tra le opere più note di Durham, una scultura dedicata alla donna che fu amante e interprete, tanto mitizzata quanto stigmatizzata, di Hernan Cortés, una figura tragica vittima di pregiudizi e di violenze incrociate, si pone come l’emblema di una attitudine artistica che, pur nella piena consapevolezza dei materiali e delle forme, non si nega al confronto né con la dimensione antropologica né con la singolarità irripetibile di ogni destino umano.

Evidence (2016), museo/archivio che racconta la caccia alle streghe condotta nei secoli passati nella città tedesca di Goslar, è esemplare di un lavoro artistico che adotta trasparenti tecniche etnografiche e però si sbilancia nel giudizio. Un procedimento che fa perno sull’empatia la quale, ha scritto Durham, «fa parte dell’immaginazione e l’immaginazione è il motore dell’intelligenza». Intelligenza che si è fatta gesto e linguaggio nelle tante opere in mostra al Madre così come nelle scelte parole e nei rari oggetti (laiche reliquie) esposti alla Fondazione Morra Greco, dove Salvatore Lacagnina ha curato la coinvolgente mostra Jimmie Durham: «And Now, So Far In The Future That No One Will Recognize Any Of My Jokes».

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