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Durham e gli altri, attimi propizi al Palatino

Durham e gli altri, attimi propizi al PalatinoJimmie Durham, "Stone Foundation", 2019, foto Valerio Caporilli

A Roma, sul Palatino, "Kronos e Kairos. I tempi dell’arte contemporanea", a cura di Lorenzo Benedetti Quindici artisti, fra cui Jimmie Durham, Kasia Fudakowski, Rä Di Martino, creano cortocircuiti di tempo, e di senso, nel sito degli imperatori

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 6 ottobre 2019

Già da qualche anno il Palatino ospita fra le sue carismatiche rovine mostre di artisti contemporanei. Ricordiamo la grande collettiva Par Tibi, Roma, Nihil, del 2016, e l’anno successivo quella ancora più ricca Da Duchamp a Cattelan. Quest’anno è la volta di Kronos e Kairos I tempi dell’arte contemporanea, aperta fino al 3 novembre. Curata da Lorenzo Benedetti, propone opere di 15 artisti di varia età e nazionalità, alcune site specific (create cioè appositamente per essere esposte in questo luogo), scaglionate su un suggestivo percorso che comprende le Arcate Severiane, lo Stadio di Domiziano, il peristilio inferiore della Domus Augustana e la Sala dei Capitelli.
Come esplicita il curatore, «l’esposizione non vuole confrontare l’arte contemporanea con un luogo del passato, ma vuole individuare uno spazio non contestualizzato da una dimensione cronologica lineare». A questo allude il titolo, che contrappone due diverse concezioni del tempo degli antichi Greci. Con Kronos si vuole appunto indicare il tempo lineare, indifferenziato (ma sarebbe stato meglio usare il termine chrónos, dato che solo metaforicamente, e in tarda età, il mitico titano Kronos, divoratore dei propri figli, fu identificato con il tempo ‘che tutto divora’, e che non esiste alcuna parentela etimologica tra le due parole), mentre kairós designa un tempo qualitativamente diverso: il momento opportuno, l’attimo propizio, l’occasione offerta da una particolare congiuntura. Per Benedetti il tempo del kairós è quello «degli atti creativi che fuoriescono dagli schemi», così come anche dalla continuità temporale.
Nel catalogo della mostra (Electa, pp. 149, € 29,00) tre saggi – rispettivamente di Roland Barthes, Giacomo Marramao e Giovanni Gurisatti – dovrebbero guidare il lettore a penetrare la complessità concettuale del kairós, ma non sempre essi risultano pienamente pertinenti al tema. Più utili sarebbero state le pagine che a kairós dedicò il R.B. Onians nel suo ormai classico Le origini del pensiero europeo intorno al corpo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo e il destino (1951), tradotto da Adelphi. Per il resto il catalogo, bene illustrato e ricco di informazioni su autori e opere, costituisce un valido supporto alla visita, considerata anche la parsimonia dei pannelli che affiancano le opere (una scelta che si può spiegare con la volontà di non farli risultare invadenti rispetto al contesto).
Va anche detto che la mostra implementa un importante progetto di mediazione culturale. Studenti di storia dell’arte dell’Università di Roma La Sapienza, che hanno ricevuto un apposito training, sono presenti dal giovedì alla domenica nell’area per soddisfare eventuali curiosità dei visitatori e stimolare in loro una fruizione attiva delle opere esposte: un esperimento che vorremmo veder diventare routine.
La prima opera che si incontra è dell’americano Jimmie Durham e consiste in una vecchia antenna parabolica che al posto del convertitore di frequenza ha un osso: una parabola – è il caso di dire – sulla relatività del tempo. L’installazione dello spagnolo Fernando Sanchez Castillo copre con cartelli di protesta abbandonati da manifestanti i ruderi di un luogo che per secoli fu il centro del potere di Roma. I tori meccanici della danese Nina Beier, che disperatamente cercano di scrollarsi dalla groppa dei contenitori di plastica, simboleggiano l’indomita resistenza alla dominazione. Nelle statue di Hans Josephson – lo scultore tedesco scomparso nel 2012 – si indovinano antiche forme femminili (una ricorda uno xóanon greco). I cani-uomini in poliuretano dell’austriaco Oliver Laric evocano mitologiche metamorfosi. L’installazione audio dell’italiana Catherine Biocca si ispira alle Lettere a Lucilio di Seneca. I cancelli di metallo della inglese Kasia Fudakowski celano stilizzati profili umani pronti a entrare in relazione gli uni con gli altri. Il bronzeo albero fiorito del belga Hans Op de Beek evoca un giardino zen. I tre grandi stendardi in pvc dell’americano Matt Mullican ambiscono a tradurre nel linguaggio iconico del logo i rapporti tra uomo e cosmo. La parete di ardesia su cui il toscano Giovanni Ozzola ha inciso tutte le rotte dei grandi navigatori è uno specchio nero che riflette la tensione verso l’ignoto. Il cigno antropomorfo trafitto a morte del maceratese Fabrizio Cotognini propaga una lontana eco della mitologia wagneriana. La videoinstallazione della romana Rä Di Martino proietta su un’antica volta perturbanti immagini di set cinematografici nordafricani ridotti a rovine abbandonate. Il brindisino Giuseppe Gabellone propone una sorta di lampadario che si protende nello spazio entrando in competizione con la luce naturale. La spagnola Cristina Lucas fa scorrere su un grande planisfero colorato la storia del mondo dal V sec. a.C. ai nostri giorni. Dario D’Aronco posiziona su un tatami giapponese oggetti d’uso quotidiano annegati nel bitume, con in sottofondo la voce della famosa cantante Michiko Hirayama.
Non in tutte le opere, come si vede, ci sono riferimenti diretti all’antico. Qui, come dice Amleto, «Time is out of joint»: il tempo è fuori dai cardini, è disarticolato, non procede secondo una traiettoria predeterminata e irreversibile ma per scarti. E il kairós genera ‘al volo’ insospettati incroci, fulminanti cortocircuiti di senso. Grazie ad esso il visitatore non è più passivo ma – per dirla con Jacques Rancière – «agisce, osserva, sceglie, paragona, interpreta». Non dovrebbe essere sempre questo il fine dell’arte, di tutte le epoche e in tutte le epoche?

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