Dürer e la frontiera alpina
Centro e periferia, sulla falsariga di un celebre saggio di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg del 1979, ma anche le Alpi come crocevia dell’arte del Quattrocento, sulle orme di un altro testo del solo Castelnuovo, dello stesso anno: questi i due temi centrali rilanciati dalla bella, ricca e ambiziosa mostra in corso al Castello del Buonconsiglio a Trento (fino al 13 ottobre), Dürer e gli altri Rinascimenti in riva all’Adige (lo argomenta bene Bernard Aikema, uno dei curatori, nel saggio di apertura del catalogo; Officina Libraria, ben 471 pagine).
Il nome del più grande maestro del Rinascimento tedesco, evocato nel titolo, non è uno specchietto per le allodole: la mostra ha la sua prima ragion d’essere nell’aver riportato a Trento, proprio tra le mura del Castello, un acquerello celeberrimo di Dürer (British Museum), raffigurante, con una verità topografica assolutamente inedita nell’arte occidentale, quello stesso Castello.
L’obiettivo originario dei curatori, certo, sarà stato quello di accostarlo ad alcuni degli altri acquerelli – tutti mitici – che quel pioniere del classico viaggio di studio in Italia di un artista d’Oltralpe (prima di lui forse solo Rogier van der Weyden; dopo, un’infinità), eseguì in Trentino, e che sono oggi divisi tra Parigi, Berlino, Brema…
Difficile ottenere simili prestiti, e così quei capolavori sono giustamente presentati al pubblico in una sala a parte, attraverso riproduzioni retroilluminate che in nessun modo vogliono sostituirsi agli originali. Si tratta anche dell’occasione per riflettere nuovamente sulla loro cronologia, che Giovanni Maria Fara, specialista di Dürer di lungo corso (e anch’egli curatore), riconferma al 1495, contro le tesi di chi vorrebbe negare che in quell’anno l’artista si recasse per la prima volta a Venezia.
Dürer raffigurò pure la città di Trento, adagiata sulle rive dell’Adige, e soprattutto l’immane roccia di Arco, coronata dalla sua fortezza, quasi un frammento dolomitico presso il lago di Garda, un apice di bellezza che da sempre affascina i tedeschi in viaggio verso l’Italia (Goethe, per esempio).
Per quel grande maestro partito da Norimberga, quindi, il Trentino non rappresentò solo il primo approccio con il Sud, con il Mediterraneo, ma anche e soprattutto quello con la grande montagna, e al Buonconsiglio si approfondisce questo tema (discusso in un saggio da un altro dei curatori, Claudio Salsi) in modo esemplare, con molte incisioni in cui il paesaggio, roccioso e aspro, è protagonista accanto magari a santi eremitici, a partire da Girolamo; ma anche con i modernissimi disegni acquarellati dell’Ambrosiana, la cui provenienza antica rimane ignota, e che potrebbero dialogare con Leonardo.
La mostra però, come anticipato, vuole dire molto di più, forse troppo (si arriva a trattare delle inquietudini religiose prima e dopo la Riforma, da Multscher fino a Romanino). Quello delle ‘frontiere permeabili’ del Trentino, e dei vari Rinascimenti che bussarono a quelle porte, dal Nord (il Tirolo), ma anche dal Sud (il Veneto, e pure la Lombardia), è poi un argomento complesso, a cui sono dedicate varie sezioni (e altrettanti saggi, tra cui quello di Laura Dal Prà, anche lei curatrice della mostra), che rischiano di soverchiare quello che rimane il nucleo più vivo dell’iniziativa.
Il prestito della Madonna col Bambino del veronese Francesco Morone (1515 circa; Verona, Biblioteca Capitolare), maestro attivo anche in Trentino, è un bel colpo, perché vi si riconosce quella medesima roccia di Arco, ma con la pur splendida Santa Caterina di Michael Pacher (museo di Innsbruck), un’opera del 1465 circa, si va troppo indietro rispetto agli anni dei viaggi italiani di Dürer.
Mostra e catalogo inoltre non sempre procedono di pari passo, e la cosa è spiazzante: tanto nella mostra – che si chiude con un focus sulla figura di Bernardo Cles (il principe vescovo che fece realizzare il ‘Magno Palazzo’, ovvero la giunta rinascimentale al Castello del Buonconsiglio, dove negli anni trenta chiamò a lavorare Romanino e Dosso Dossi) –, quanto nel catalogo (dove l’ultima sezione è quella sulle inquietudine religiose), protagonista del finale è il capolavoro di Dürer oggi al Thyssen di Madrid, quel Cristo tra i dottori che il maestro dipinse in cinque giorni, come volle orgogliosamente puntualizzare sotto il proprio monogramma. E tutto ciò nel 1506 – non certo all’epoca di Cles – e soprattutto a Venezia: ossia in centro, non in periferia.
Questo per dire che la mostra del Buonconsiglio è un’iniziativa di grande serietà scientifica, che propone al pubblico una disamina articolata della temperie artistica sviluppatasi nel Trentino lungo un ampio arco cronologico, ma che forse non coglie perfettamente nel segno: Dürer attraversò quelle terre, probabilmente due volte, sempre per raggiungere Venezia, e non vi lasciò nessuna opera, né pubblica né privata, incidendo di fatto sugli artisti locali solo attraverso le sue incisioni, allo stesso modo, in fondo, con cui arrivò a esercitare la propria influenza a Roma come a Firenze.
Anche la splendida Adorazione dei Magi degli Uffizi, del 1504, dipinta verosimilmente per il principe elettore di Sassonia Federico III il Saggio, non ha molto a che fare con il Trentino, e l’ipotesi più volte ventilata che fosse stata eseguita proprio per il Castello del Buonconsiglio è chirurgicamente smontata dallo stesso Fara (è comunque un merito dei curatori aver portato quel capolavoro in mostra).
Tutto ciò non toglie che in mostra ci siano altissimi momenti di serrato dialogo Germania – Italia, e anche Dürer – Trento, e intendo riferirmi soprattutto alla stanza forse meglio riuscita di tutto il percorso, quella dedicata alla ritrattistica, con il dipinto bellissimo del maestro oggi a Genova (1506), e uno di raggelata eleganza, raffigurante un canonico di Bressanone (1519; sempre da Innsbruck), capolavoro di Max Reichlich, tanto astratto e moderno da sembrare quasi un Casorati, ma che si legge bene anche in rapporto ai precedenti di Antonello da Messina e di Alvise Vivarini (rappresentato in mostra con un dipinto dai Musei Civici di Padova).
Dal Kunsthistorisches Museum viene invece il Ritratto di Bernardo Cles (che nella mostra si incontra peraltro alla fine) dipinto da Bartholomäus Bruyn il Vecchio intorno al 1530-’31, il quale risente di altri modelli nordici, soprattutto fiamminghi (Massys).
Al posto d’onore della sala, però, è il dipinto di Jacob Seisenegger raffigurante Le figlie di Ferdinando I d’Asburgo e Anna di Boemia (1534 circa), un ritratto di gruppo già citato nella lunga ecfrasi poetica dell’ala del castello voluta da Cles, e data alle stampe nel 1539 da Pietro Andrea Mattioli (Il Magno Palazzo del cardinale di Trento). Posto subito sotto agli affreschi tedescheggianti di Romanino in cui sono ritratti sempre Cles e proprio Ferdinando I, questo dipinto, pur forse più vicino a Cranach il Vecchio (anch’egli rappresentato in mostra con il notevole Vir dolorum prestato da Bressanone) che non a Dürer, serve comunque a chiudere virtuosamente un cerchio, a saldare cioè la stagione dei viaggi italiani del grande norimberghese a quella clesiana, ovvero al momento in cui quanto veniva realizzato a Trento, nel Castello, non temeva il confronto con i cantieri di Giulio Romano a Mantova.
Ultima menzione d’onore, allora, per l’eccezionale disegno di Albrecht Altdorfer (1532; Uffizi), progetto per gli affreschi perduti realizzati nel palazzo vescovile di Ratisbona e direttamente ispirati al ciclo romaniniano della loggia e dello scalone del Buonconsiglio: la chiusura, cioè, di un altro percorso circolare tra Italia e Germania, tra i Rinascimenti a Nord e a Sud delle Alpi.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento