Duras, estasi, alienazione, sincope dell’io, poi una quieta follia
Quando torna in commercio, dopo anni di eclissi, un romanzo che ha fatto epoca, o quantomeno ha goduto, a suo tempo, di un credito ampio e convinto, è inevitabile chiedersi se la disposizione d’animo con cui lo leggiamo oggi è la stessa di allora; se stile, temi, personaggi reggono l’urto del tempo, se insomma il libro è invecchiato bene, se si avvia a diventare un classico, o se invece rischia di confondersi fra i molti, peregrini repêchages che periodicamente ingombrano gli scaffali delle librerie. Uscito in francese nel ’64, Il rapimento di Lol V. Stein di Marguerite Duras viene oggi ristampato da Feltrinelli – nudo di ogni apparato critico, privo perfino dell’essenziale segnaletica paratestuale in grado di collocarlo nel suo contesto originario – nella versione (all’epoca einaudiana) di Carla Lusignoli (1966), rivista nel 1989 da Leonella Prato (pp. 160, € 8,78).
È forse il più celebre fra i romanzi del secondo periodo di Duras, quando all’influsso della narrativa americana, che ne aveva segnato gli esordi, subentra quello del nouveau roman: con uno spostamento tutt’altro che scontato, grosso modo, da Hemingway (o Steinbeck) verso Robbe-Grillet.
Titolo intraducibile
Di un testo interamente votato all’ambivalenza, dà subito la misura il titolo: l’intraducibile Ravissement non rimanda, se non metaforicamente, a un sequestro di persona, come rischia invece di dare a intendere la traduzione italiana – e infatti le versioni in lingua inglese, pur proponendo due soluzioni diverse, Ravishing e Rapture, privilegiano il campo semantico dell’estasi. Perché Ravissement, nel libro di Duras, è rapimento estatico e sincope dell’io, rivelazione epifanica e crollo psichico; insomma, felicità sovrumana e, insieme, alienazione mentale. Il lettore che prende in mano il libro ha il diritto di sapere che lo aspetta una scabra e inquietante vicenda sentimentale, forse addirittura un caso clinico – non certo un thriller o un giallo.
Quando il fidanzato improvvisamente la lascia, durante un ballo al Casinò di T. Beach, folgorato dall’incontro con una donna più anziana, la diciannovenne Lol è rapita a se stessa, sembra sprofondare in un’attonita passività, in una quieta follia. Qualche tempo dopo, accetta di sposare un silenzioso musicista, si trasferisce in un’altra città, ha tre figli, sublima il caos interiore in un rigido e impeccabile ordine domestico. Dieci anni più tardi, torna con la famiglia a S. Tahla, nella casa dove è cresciuta; ritrova un’amica dell’adolescenza, Tatiana Karl, e ne conosce l’amante, Jacques Hold. La trama è tutta qui. L’ambientazione è astratta: quartieri benestanti e località turistiche, in un altrove forse anglofono e cosmopolita, vagamente coloniale ma anche un po’ francese; i personaggi sono pochissimi e sfuggenti: individuati per lo più da un segno distintivo ricorrente (la foltissima capigliatura della bruna Tatiana, il biancore della pelle di Lol); lo stile ellittico realizza l’ossimoro di una paratassi oscura, in cui i vuoti e le incongruenze sgretolano l’apparente semplicità del dettato. Solo gradualmente il lettore si rende conto che il narratore è Jacques, a sua volta ‘rapito’. Infatti è ambivalente, nel titolo, perfino la preposizione: il genitivo è al tempo stesso soggettivo e oggettivo. Lol si perde nell’assenza e nell’estasi, «si dilegua costantemente dalla sua vita»; ma travolge anche Jacques nella vertigine del colpo di fulmine.
È il bisogno di ricostruire congetturalmente il passato dell’amata a muovere la penna di un narratore dichiaratamente inaffidabile («Invento»; «Mento»): interrogando pochi indizi, o rielaborando la testimonianza, dubbia e tendenziosa, di Tatiana. Invece Lol si sottrae: le sue poche battute, in apparenza banali, hanno quasi sempre una perturbante incongruità. Le sue azioni, assurde e/o necessarie, si prestano a letture opposte: come quando, sdraiata in un campo di segale, spia a più riprese gli incontri erotici di Jacques e Tatiana, attraverso la finestra di un albergo a ore; e nei confronti dell’amica sembra provare (come già nei confronti della misteriosa rivale, al ballo di T. Beach) al tempo stesso gelosia e appagante identificazione – come se solo per interposta persona Lol potesse trovare un precario ormeggio nella realtà, prima di scivolare (definitivamente?) nella follia, nelle ultime pagine del libro.
Ecco: l’enigma dell’innamoramento, la casualità fatale dell’incontro, l’estasi di uno spossessamento, l’inattendibilità del racconto, la menzogna di «una parola-assenza». Temi su cui la migliore critica letteraria italiana si è interrogata a lungo, negli ultimi decenni – senza mai citare Duras. E poi, l’opacità violenta del desiderio, l’ambiguità della gelosia, l’ossessione erotica, l’impossibilità del rapporto fra i sessi: motivi ricorrenti nei libri più importanti della scrittrice.
Era dunque opportuna, questa ristampa. Ma è segno dei tempi che nel volume di Feltrinelli non compaia il nome di Jacques Lacan. Era scontato, fino a qualche anno fa, che a rendere imprescindibile la storia di Lol fosse (anche) il saggio che lo psicanalista le ha dedicato nel 1965. Poche pagine, più che mai impervie e oracolari, nondimeno bellissime. Pagine importanti nella storia dei rapporti fra letteratura e psicanalisi, perché derubricano a goujaterie, «cafonata», ogni velleità di psicanalisi dello stile, del personaggio, o dell’autore; e ribadiscono alla letteratura una priorità cognitiva («Duras mostra di sapere prima di me quel che io insegno»).
Sono pagine fondamentali per (provare a) capire Lol: perché colgono in tutto il racconto la centralità dello sguardo (della e sulla protagonista), ne esibiscono i paradossi (nel campo di segale, Lol «non è il voyeur. Quel che succede la realizza»); e mostrano l’ambivalenza delle strutture ternarie che organizzano il romanzo – dal sistema dei personaggi al nome della protagonista, geroglifico interpretato, con spudorata fumisteria, alla luce della morra cinese: Lol V. Stein – ali, forbici, pietra (questo è Lacan, prendere o lasciare).
Edizione svestita
Su Lacan e Duras sono usciti in Francia, in anni non lontani, vari libri: mi limito a citare quello dello psicanalista Erik Porge, Le Ravissement de Lacan: Marguerite Duras à la lettre (érès, 2015); e anche in Italia uno studio recentissimo, d’impostazione teorico-letteraria, ha scommesso sul valore di una lettura esemplare: Eleonora Fracalanza, L’incontro e i suoi destini. Marguerite Duras con Jacques Lacan (Mimesis, 2021). La teoria della letteratura e la psicoanalisi, certo, vendono oggi meno di un «rapimento». Forse per questo Feltrinelli ha voluto il romanzo dérobé (direbbe Lacan), sottratto a, e svestito di, ogni incrostazione culturale. Eppure non c’è invito alla lettura più efficace delle parole con cui si conclude il saggio del 1965: «le nozze taciturne della vita vuota con l’oggetto indescrivibile». Definizione memorabile, capace di condensare il senso, ancora attuale, e la bellezza, enigmatica e abrasiva, di un romanzo che, tutto sommato, invecchia bene.
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