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Duplicità di un gesto che spezza i legami forti

Duplicità di un gesto che spezza i legami fortiAlfred Haberpointner, Heads 5 installazione alla Schmidt Galerie, Reith (Austria)

Natura umana Nel suo saggio «Il tradimento», uscito da Einaudi, il filosofo israeliano Avishai Margalit sostiene come sciogliere il collante che tiene uniti i rapporti forti abbia a che fare con l’etica, non con la morale

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 14 gennaio 2018

Il tradimento è uno di quegli atti nei quali si rivela tutta la complessità del modo d’essere degli umani, la loro inaggirabile duplicità, la struttura sempre in fieri delle relazioni dentro cui si inscrive la vita umana, il suo non essere mai decisa una volta per tutte. Quel gesto che viene avvertito come il più vile e odioso da chi è tradito, può rovesciarsi, se letto con gli occhi del futuro o da una prospettiva laterale, in un gesto eroico, in un sacrificio, in un atto di coraggio che può produrre conseguenze del tutto inattese o addirittura nell’epifania di qualcosa di nuovo che avanza sullo sgretolamento del vecchio.

I traditores erano, nel II secolo dopo Cristo, quei cristiani che consegnavano i testi sacri alle autorità romane come segno di resa, di allontanamento dalla fede. Ma con quel tradimento i testi sacri uscivano dai circoli ristretti e segreti delle piccole comunità e si insinuavano dentro una cultura altra, innervandola di differenze intrinsecamente trasformative. L’ambiguità del tradimento, la sua duplicità, è già nella parola che lo dice: il verbo latino tradere rimanda infatti tanto alla consegna delle armi da parte del nemico sconfitto o alla consegna di qualcuno nelle mani della giustizia, quanto al dare in eredità un bene o al tramandare qualcosa come una tradizione.

Non è un caso, da questo punto di vista, che l’uomo entrato nella cultura e nell’immaginario occidentale come il simbolo stesso del tradimento, Giuda, sia uno dei personaggi che proprio per la sua straordinaria e umanissima ambiguità ha attirato da sempre l’attenzione della letteratura, di quella novecentesca in particolare.

Qualche titolo letterario
Il suo fascino trova forse una delle sue espressione più potenti nell’incipit del romanzo di Lanza del Vasto pubblicato da Laterza nel 1938 con il titolo appunto Giuda: «Perché colui che vedeva nel petto della gente i pensieri nuotare come pesci in un boccale, volle tenerselo accanto fino all’ultimo? Non aveva Gesù nemici a sufficienza? Perché Giuda era uno di noi».

Uno di noi in quanto uomo colpevole, che si dispera e si dà alla morte per avere cercato quella libertà che lo sciogliesse dalla dipendenza dal maestro. Borges, in Tre versioni di Giuda – racconto contenuto in Finzioni – fa del traditore addirittura il vero figlio di Dio: per salvare gli umani Dio si è abbassato fino all’infamia, fino a fare l’esperienza estrema della complessità del male e del tradimento di sé.

Nel romanzo che scrive poco prima di morire nel 1978, La gloria, Giuseppe Berto fa di Giuda un uomo che deve tradire per una necessità superiore, ovvero perché il disegno si compia: Gesù deve morire per salvare gli uomini e Giuda è in qualche modo la vittima sacrificale che deve portare a realizzazione ciò che ha da essere. Prospettiva, questa di Berto, in parte ripresa nel Giuda di Amos Oz, pubblicato nel 2014, romanzo che non ha tanto nell’Iscariota il suo protagonista, quanto nel nome stesso di Giuda, che nasconde l’ambiguità del tradimento. Certo, uno dei protagonisti del romanzo, impegnato nella scrittura di una dissertazione sulla visione ebraica della figura di Gesù, parla di Giuda come del primo e ultimo, ovvero dell’unico, cristiano; e cioè come di colui che credeva nella divinità di Gesù più di quanto non vi credesse Gesù stesso e che aveva perciò pensato la crocifissione come l’evento nel quale il Cristo avrebbe rivelato al mondo, con un gesto impossibile, la sua divinità. Il Giuda di Oz può essere pensato persino come un elogio del tradimento. Perché solo chi tradisce, ha detto una volta Oz in una conversazione con Wlodek Goldkorn, è capace di cambiare sé stesso e il mondo.

Sul tradimento è il titolo del saggio scritto dal filosofo israeliano Avishai Margalit che Einaudi ha appena tradotto all’interno della collana i Maverick (traduzione di Barbara Del Mercato e Dario Ferrari, pp. 267, euro 21,00). Attraverso una analisi acuta e dettagliata delle diverse forme assunte da questa speciale forma dell’agire, Margalit cerca di evidenziare le caratteristiche del legame che il tradimento spezza e manda in frantumi, ovvero di quelli che egli chiama i rapporti umani forti: ad esempio, il legame famigliare, il vincolo dell’amicizia, l’appartenenza a una comunità religiosa, a una comunità politica o anche a una classe sociale. I legami forti sono quelli che costituiscono il tessuto etico delle nostre vite, un tessuto che va distinto, secondo Margalit, dal piano morale, che non riguarda il rapporto di fedeltà in gioco nell’amicizia, le relazioni parentali che fanno da collante nella famiglia o la solidarietà tra persone che si trovano a condividere il medesimo destino.

Il piano morale, dice Margalit, ha a che fare con l’umanità in generale, con il rispetto per l’umano in quanto tale: non dunque con l’alterità della persona amata, dell’amico o del compagno di lavoro, ma con l’altro in generale in quanto essere umano, in quanto vivente. Una distinzione, questa, che non implica gerarchie, ma cerca di mettere in evidenza in modo concreto il tipo di legame, forte nel caso dell’etica e debole nel caso della morale, che ci lega all’altro. La morale ci dice come dobbiamo comportarci verso gli altri. L’etica regge invece i rapporti con le persone che hanno per noi un valore speciale, un fratello, un amico, un sodale.

Il senso dell’appartenenza
La tesi principale di Margalit, argomentata anche attraverso una serie imponente di riferimenti storici, letterari e religiosi, è che il tradimento scioglie il collante che tiene uniti i rapporti forti: dunque, ha necessariamente sempre fare con l’etica, non con la morale. Ciò che il tradimento erode irrimediabilmente è infatti l’appartenenza: se la famiglia, secondo Margalit, è il paradigma di rapporto forte del mondo ebraico e l’amicizia è il paradigma cristiano, la fratellanza e la solidarietà potrebbero essere pensati come il paradigma dei rapporti forti delle società moderne, nate con la rivoluzione francese. Ed è appunto qui che si fa strada, sebbene forse anche troppo fra le righe, l’intento critico del lavoro di Margalit: se infatti oggi il tradimento non fa più scandalo, se addirittura appare come qualcosa di arcaico e desueto, è anche perché il legame forte che va a recidere appare in realtà così debole che non solo non sgorga il sangue, ma fatica persino a farsi strada qualche lacrima.

Un mondo senza storia
Una società senza tradimento è in questo senso una società senza rapporti forti, senza appartenenze. E, al tempo stesso, è una società che fa della trasparenza assoluta il proprio ideale, non lasciando spazio al tradimento. Ma una tale società, avverte Margalit, sancirebbe lo sfaldamento del tessuto etico dentro il quale si svolgono e assumono senso le nostre vite; sarebbe la negazione stessa del senso di appartenenza, che esiste proprio in quanto ha in sé la possibilità del tradimento. Un mondo senza tradimento non può infatti che essere un mondo senza storia: se privato della possibilità che il passato venga tradito per un orizzonte di senso nuovo questo sarà necessariamente un mondo nel quale viene meno l’idea stessa di futuro.

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