Dunoyer de Segonzac, un muratore nelle campagne di Francia
Riscoperte nell'arte: una nuova serie André Dunoyer de Segonzac, il più rilevante dei neo-cézanniani, capofila dei pittori «Bande Noire»: dalle tele calcinate degli esordi alla liberazione nelle trasparenze. Fu anche un vero personaggio
Riscoperte nell'arte: una nuova serie André Dunoyer de Segonzac, il più rilevante dei neo-cézanniani, capofila dei pittori «Bande Noire»: dalle tele calcinate degli esordi alla liberazione nelle trasparenze. Fu anche un vero personaggio
In quale categoria rientrerebbe, per il Francis Haskell storico del gusto e dei suoi capricciosi rovesci, l’inabissamento, fra vaste porzioni dell’arte entre-deux-guerres, di quel fenomeno abbastanza eletto che risponde alla sigla, un po’ di comodo, neo-cézannismo francese? Si tratta di pittori con una franca solidità di scuola, che si avvedono dei pericoli intellettualistici insiti nel cubismo e se ne ritraggono, non tornando al passato come certo tristissimo tardo-impressionismo, non impostando sul passato la ricerca ideologica di un nuovo ordine, non accademizzando il nuovo, ma riqualificando, da un fronte avanzato, le parti ‘naturaliste’ dell’opera di Cézanne che Picasso, Braque e Gris avevano sacrificato alla loro idea, pur sempre di radice cézanniana, del quadro come puro atto di coscienza.
Dufresne, Boussingault, L.-A. Moreau, Alix, La Patellière, ma il nome più di spicco è André Dunoyer de Segonzac, al quale sta dedicando le sue energie, con l’obiettivo di una nuova monografia, il recente biografo di Derain Michel Charzat, autore d’altra parte del volume La Jeune peinture française 1910-1940, con cui riesumava nove anni fa, per la memoria corta dei suoi connazionali, i pittori di quella schiatta.
Simili come posizione storica a Derain, con cui ciascuno di essi stabilisce un dialogo a misura delle sue esigenze, se ne differenziano in quanto, meno implicati nella militanza dell’avanguardia anteguerra, non si trovano a operare lo scarto «reazionario» che ha fatto dell’artista di Chatou un caso clamoroso, e risultano dunque, pur nella difficoltà dell’essere inattuali, più persuasi di sé, più semplici di intendimento. Le loro inquietudini, che ci sono, non raggiungono mai il diapason del trouble di Derain, dove la pittura è lingua morta, la modernità sottrazione fatale della grande arte del passato, a cui non si può tuttavia che tornare, ossessivamente e senza speranza: nessuno dei jeunes peintres françaises viene altrettanto attirato dal Museo, per Derain una specie di mostro anguicrinito, o una sfinge.
Lo Jongkind del ventesimo secolo
Segonzac: solo il nome suscita interesse! Chi conosca il moto magicamente abbreviato dei suoi disegni e dei suoi acquarelli, che ne ha fatto lo Jongkind del ventesimo secolo, trova nel suono una sprizzante carica onomatopeica. La ricezione italiana del maestro di Boussy-Saint-Antoine (Seine-et-Oise, dove era nato il 7 luglio 1884) è scarsissima. L’ambiente longhiano, che avrebbe potuto trarne qualche argomento, lo ignora. Nel 1967 ne scrisse con sicurezza interpretativa, per la collana «L’arte moderna» dei Fratelli Fabbri, Massimo Carrà, facendone un caso rilevante di bonne peinture, di amore del mestiere, di fedeltà a se stessi, a fronte delle molteplici diversioni e derive avanguardistiche. Il più notevole interprete di Segonzac, Claude Roger-Marx, non esitò, in occasione della mostra-bilancio all’Orangerie des Tuileries del 1976 (l’artista era morto due anni prima, a Parigi), a farne la perfetta controparte di Picasso: paragone valido non in chiave ideologica, antimoderno versus moderno, ma nel suo rilevare, all’interno della stessa scena dell’arte, la coesistenza di due opposti temperamenti. Picasso è la straordinaria versatilità, il continuo cambio di maniera, la «voce recitante», come formulò Francesco Arcangeli; Segonzac è, per eccellenza, l’artista della compattezza, persino della monotonia, la cui opera non ha o quasi sviluppo, è una volta per sempre nel momento in cui, 1910, anno dei Buveurs e del Village, trova il suo potente che cosa, la sua austera giustificazione.
Il Cézanne a cui guarda agli esordi non è quello dell’ultima stagione, eremita nelle geometrie del visibile, che con la forma aperta dei suoi passages dava modo ai cubisti di destrutturare e scomporre, ma quello giovanile, romantico, in lotta rodomontica con la materia. Su questo esempio, Segonzac usa la spatola, opera come un muratore, sovrapponendo strato su strato, con il risultato di una pittura a corpo, calcinata, scabrosa. Si aggiunga la tavolozza spartana, i camaïeux a base di ocre, di terre, di grigi, con cui reagiva, insieme ai suoi compagni della cosiddetta Bande Noire (usciti perlopiù, come lui stesso, dall’Académie La Palette), al colore puro e svincolato portato in auge dai fauves. In questa predilezione per le tinte sombres Segonzac è anche vicino alla fase analitica del cubismo, da cui trae, d’altra parte, soprattutto, un altro, decisivo insegnamento: ciò che egli stesso ama definire la tenuta. Per ottenere dal quadro la tenuta le forme devono rispondersi in una vigorosa stretta organica, precondizione è che siano semplificate all’osso, ogni dispersione narrativa o decorativa è giansenisticamente bandita. I colori, sordi, funzionano allo scopo, e così il principio armonico, da preferire ai contrasti, che rischiano più facilmente di sbilanciare l’insieme. In Segonzac la personalissima cernita di Cézanne ha come obiettivo di riqualificare, più indietro, la linea Daumier-Courbet, che era stata cruciale per gli inizi del maestro di Aix: nel commentare la «vitalità» dei Buveurs, gli empâtements di questo rustico interno, Roger-Marx invitò a non farsi trarre in inganno, non i Jouers de cartes di Cézanne ne sono il modello, ma i Jouers des échecs di Daumier.
Nel Midi con Moreau e Boussingault
La campagna profonda dell’Île-de-France, con i suoi verdi smorzati, i marroni, i grigi, rigata dal corso dell’Yerres, affluente della Senna che attraversa la proprietà del castello di famiglia, è per Dunoyer de Segonzac la scena primaria, su cui si cristallizza la sua torpida immaginazione: nulla di fantastico in questo pittore, per il quale un fazzoletto di terra è sufficiente alla bisogna, e il primo timido risveglio di primavera sui tronchi scheletrici già appare come un lusso dell’occhio. «Proprietario rurale, ha scritto il mercante d’arte e pittore Georges Aubry, Segonzac trasporta le sue terre sulle sue tele». Nel 1908, a ventiquattro anni, insieme ai bande noire Luc-Albert Moreau e Jean-Louis Boussingault, amici per la vita, egli scopre il Midi, il villaggio peschereccio di Saint-Tropez, dove fa la conoscenza di Signac e dove si installerà stagionalmente, a partire dal 1925, acquistando da Camoin, il fauve amico di Matisse, la meravigliosa villa «Le Maquis». Ma pensate che il luminoso Midi gli risvegliasse la retina, come a tanti maestri francesi del Nord prima di lui? Nelle sue tele la Provenza è… come l’Île-de-France, amata più che nell’affaccio marino nell’ondulato entroterra, anonimo, segreto, solcato dalle nuvole. Non per la scoperta del Midi la palette di Segonzac si arricchirà e la sua materia si alleggerirà.
Nei quadri dei primi anni venti campagne e lungofiumi si popolano di ragazzi muscolosi in canottiera con la loro bella à l’ombrelle, di donne addormentate o bagnanti, tutte figure vigorosamente sbozzate e disposte in pose ardite come già i nudi degli anni dieci: ma la gravosità dell’impasto materico courbettiano, che tanto irritava Kahnweiler e il suo idealismo cubista, comincia ad allentarsi, e così anche la terrosità penitenziale della gamma cromatica, dove adesso i verdi, resi a smalto, reclamano presenza. I verdi di Segonzac! Ci si potrebbe perdere come nei gialli di Bonnard. Il culmine di questo momento è rappresentato dalla serie Les Canotiers, un soggetto preso dal vivo in strepitosi disegni e schizzi durante le passeggiate lungo le rive della Marna e del Grand-Morin. Un po’ più tardi i corpi seminudi, che staccano monumentali dalla natura e insieme vi partecipano panteisticamente, assumono le sembianze di divinità pagane, a volte dichiaratamente come nel Bacchus del Centre Pompidou, un quadro che può essere piaciuto a de Pisis.
Cosa ha portato Segonzac a mitigare la corposità della pittura a olio? Più che il recupero di Corot, cui si richiama Roger-Marx, l’esperienza dell’acquarello, che dà all’artista, pieno, il senso delle trasparenze. Già in alcuni dei disegni ‘graffiati’ di guerra (partecipò ai tremendi combattimenti della regione di Nancy e di Bois-Le-Prêtre, poi, come tanti artisti, p. e. Braque e Villon, prestò servizio nella sezione camouflage), Segonzac aveva utilizzato rialzi di colore, ma a partire dagli anni venti mette a punto un procedimento ad acqua, piuttosto elaborato, che prevede ‘stati’ successivi, dal disegno preliminare a inchiostro di china fino all’ultima di tre passate cromatiche, deputata a armonizzare in definitiva l’insieme. Importanti i suggerimenti di Signac, acquarellista insigne, che però riprovava l’uso, in Segonzac davvero strutturale, delle ocre e delle terre di Siena. Gli incredibili risultati ottenuti con questa tecnica, dove la corsività elettrica della grafia viene accarezzata, molcita dalla liquidità delle trasparenze, hanno fatto dell’artista il vero genio dell’acqua nell’arte del Novecento. Altrettanto alto il grado di qualità nel campo dell’incisione all’acquaforte, dalle Croix de Bois (1919-’21), dove Dunoyer documenta fra crudezza e pietà appunto l’esperienza della trincea, alle Géorgiques, cioè il commento figurativo della traduzione francese del poema virgiliano fatta da Michelle de Marolle. Un libro illustrato, questo, che segna il vertice di Segonzac incisore, con i suoi rami lavorati da una scrittura sottilissima e nervosa, quasi gettata via per tradurre nel modo più immediato il panteismo rurale del poeta augusteo, così consentaneo alla sensibilità naturalistica del nostro.
Pubblicate nel 1947, Le Georgiche ebbero una lunga gestazione, la prima idea risalendo addirittura al 1920. Avrebbero dovuto essere una delle mitiche edizioni letterarie illustrate di Ambroise Vollard, se la morte accidentale del mercante di quadri e la nuova guerra non si fossero messe di mezzo. Le Georgiche attestano compiutamente l’élan vitale di Segonzac, che si realizza nell’identificazione totale con l’atto operativo, senza alcun filtro teorico o intellettuale. Rispetto alla produzione grafica, la maggiore ‘lentezza’ della tecnica a olio impedisce a questo slancio di manifestarsi a tutte lettere in pittura, dove resta sottotraccia, come imprigionato dalla densità materica, che d’altro canto, come si è detto, viene via via a sciogliersi nel progresso degli anni. Nondimeno è proprio questa doppia natura a rendere singolarmente charmants, magiche in una maniera non facilmente classificabile, le tele di Segonzac, che invece, nelle preferenze di critici e amatori, e del mercato, hanno finito per lasciare il campo agli acquerelli e alle incisioni. Se si guarda al genere «natura morta», coltivato dall’artista sin da giovane, quando con La Vénus Medicis, 1912, raggiunse il massimo accostamento al cubismo, è più facile verificare la progressiva liberazione nel colore, sempre più succoso e ricco di nuances (la scala dei verdi!) e di nuove accensioni locali.
La pittura di Segonzac ebbe un cultore di eccezione in Paul Poiret, il sarto della conquistata modernità. Quando questi, nel 1925, mise in asta la sua importante collezione di maestri moderni (tra cui figuravano Matisse e Picasso) Le Village e Les Buveurs, i due capolavori del primo Segonzac, ottennero risultati vertiginosi: l’acme del successo. Può risultare strano che un’arte così ruvida e austera catturasse le attenzioni di Poiret, re della mondanità parigina, alle cui celebri feste, del resto, Segonzac prestò le sue abilità scenografiche. Il fatto è che, solitario gentiluomo di campagna, il maestro di Boussy-Saint-Antoine – baffetti da spadaccino, occhi mobili e saettanti, cappelli e foulards – era anche ‘personaggio’ (basta guardarlo nel lucido ritratto a grafite, 1914, di Boutet de Monvel, riemerso recentemente in un’asta parigina). Nei primi anni dieci si incapriccia dei Balletti russi ed è rapito dalla figura di Isadora Duncan, due eccezionali banchi di prova in campo grafico (l’ultimo a gara con Rodin), con risultati di euritmica sorprendenti. Nei primi anni venti, appassionato di boxe, si applica a illustrare, nel modo più elastico, un testo dell’umorista Tristan Bernard sulle avventure del ring. Nel novembre 1922, appena morto Proust, troviamo Segonzac al suo capezzale: con la china, per rapirne le fattezze finali. In seguito diventa intrinseco di Colette: ne illustra Bubu de Montparnasse (1929) e le dedica in acquaforte, con intensità volatile, uno dei rari ritratti da lui realizzati: di spalle, alla scrivania. Nel 1946 un altro ritrattato inciso è Gide vecchio: occhi vuoti, fessure nere.
In definitiva come conciliare tutto questo fervore di circostanze culturali, e anche la fama di amabile seduttore, e anche la stupida partecipazione a un viaggio disgraziatissimo come quello degli artisti francesi nella Germania nazista, 1941, con il suo culto quasi monacale del mestiere, con la sua idea dell’arte come – definizione a lui cara – état de grace, con il suo amore tenero e violento per la natura di Francia? Bifronte o mascherato, questo è André Dunoyer de Segonzac!
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