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Dulac, evanescenze francescane

Dulac, evanescenze francescaneLucien Lévy-Dhurmer, "Portrait présumé de Charles-Marie Dulac", 1898-’99 circa, pastello, collezione privata

A Roma, Galleria Simone Aleandri, "Marie-Charles Dulac", a cura di Federico De Melis Il "Cantico delle Creature" nelle litografie tonali del simbolista francese che pregava col paesaggio

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 1 maggio 2022

Non vi sono solamente le farfalle di cui parlava Carducci sotto l’Arco di Tito; anzi forse, a voler scavare, vi giacciono cose magnifiche, sepolte allo sguardo dalle latebre della terra o della dimenticanza; cose che quasi ci sfuggirebbero se mostre come questa Marie-Charles Dulac. Pregare con il paesaggio, curata da Federico De Melis alla Galleria di Simone Aleandri a Roma, non ci venissero a scuotere dal nostro torpore. D’altra parte, in questo caso avremmo mancato un artista eccelso, di cui possiamo qui ammirare uno dei vertici: la raccolta di litografie dedicata al Cantico delle Creature, che, stampata a Parigi in un numero piuttosto esiguo di copie, nel 1894, venne raccolta in una copertina rigida (litografata anch’essa da Eugène Belville) e accompagnata da un testo di Charles Clair.
Le stampe rappresentano paesaggi idealizzati, ciascuno dei quali corrisponde a uno dei temi dell’opera francescana. La loro magnifica tecnica incisoria, tuttavia, non è che il culmine d’una poetica precisa: già nelle litografie dei Paysages l’artista aveva, infatti, cominciato, come spiega De Melis, a mettere «a punto quel prezioso sistema di selezione cromatica (violaceo, rosa, verde mela) tutto volto alla più sottile tonalizzazione, che fa della sua produzione grafica un caso unico». Si tratta sempre di delicati trapassi tonali «car nous voulons la nuance, la nuance encor», come scriveva Verlaine. Ma entro quella gamma di colori, che non comprendevano né il nero fondo né il bianco abbacinante, quale ricchezza di modulazioni! Basti vedere il nuvolame sfioccato e scomposto della tavola Jesu, via et vita nostra, Jesu, thesaurus fidelium oppure le quiete acque della tavola Jesu, sol Justitiae, che sono come di luce accagliata; luce che permea tutte queste litografie, quasi un velo pallido e uniforme di rugiada sul mattino del creato.
De Melis ricorda gli ascendenti di questa poetica del «brumoso» che nella storia dell’arte, sebbene non abbia saputo imporsi come quella pre-novecentesca che passa per Gauguin, ha dato i capolavori di Carrière, di Fantin-Latour e di Puvis de Chavannes, dei quali in mostra vediamo alcuni esempi. Codesto principio di indefinitezza e di sfumato, d’altra parte, era all’epoca tutt’altro che marginale. E forse potrà servire ricordare un bisticcio raccontato dai Goncourt nel loro famoso diario, allorché Saint-Beuve andando su e giù per la stanza, ripeteva: «rose thé…Qu’est-ce que c’est une rose thé…rose thé…il n’y a que la rose, ça n’a pas de sens!» mentre i Goncourt, in difesa del loro romanzo, cercavano di spiegargli che quando il cielo era giallo della sfumatura giallo rosato del rosa tè non era semplicemente rosa. Un linguaggio che doveva cogliere le sfumature più sottili doveva tendersi fino al suo limite…quasi al confine del segno invisibile, della pagina bianca.
Ma la ricerca dell’ineffabile si fondava nel caso di Dulac su un’esigenza spirituale autentica che non era, come ad esempio nel caso del francescanesimo dannunziano, uno stimolo a piaceri più sottili, no, il frate-pittore era un’anima naturaliter christiana. Dice bene De Melis: dipingere era la sua maniera di pregare con i paesaggi: «Se avessi saputo a memoria il Cantico delle Creature – scrive in una lettera all’amico Henry Cochin – l’avrei cantato. Ero pieno del suo spirito, come del resto mi è successo frequentemente anche altrove. Il Cantico di San Francesco non va cantato, bensì ascoltato. È tutto ciò che ci circonda a cantare; noi dobbiamo solo ripetere. Nella sua esuberanza d’amore egli ripeteva che certe cose non si possono proferire ad alta voce». Ed egli doveva sentire così la pittura, come un’emanazione spirituale delle cose. Quando questa voce taceva, egli non osava più sollevare la matita; si sentiva, vuoto, abbattuto, come una vela senza vento, accasciata mestamente sull’albero maestro. Ma poi la grazia tornava, e nelle cose varie e mobili del mondo riprendeva a vedere l’unità simbolica, ch’era unità divina. La galleria di Aleandri è piccola, raccolta: ma in questi giorni la vediamo splendere come una piccola chiesa di campagna.

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